Pop Corn

Birdman, il volano del fallibilismo

La sperimentazione di Iñárritu sul meta-cinema

Perché Birdman? Non serve una risposta, ma più domande. Un'inveterata doppiezza artistica, lacerata tra il fare un film sul cine-teatro e rendere lo schermo lo specchio della sala. Ed ecco un altro specchio, altre voci, altri spettatori, altri punti di vista. Ancora un doppio, il doppio per protagonismo: Keaton abbandona la notte e approda nel giorno; ma in fondo, l'una comprende l'altro così come Birdman integra Batman. Ma qui il vero headline è tra parentesi, come tutte le cose da non trascurare: l'imprevedibile virtù dell'ignoranza sembra l'etichetta più adatta per il prodotto cultura, messo in serie tra gli scaffali del reparto dei "Best Before". Lo spettacolo è lì lì per scadere e salvare qualcosa di scadente significa cambiarne l'utilizzo, re-impiegarlo, come uno yogurt in una torta.

E arriva Mike Shiner a occuparsi della trasformazione di "What we talk about when we talk about love". Un Edward Norton nei panni deL "se stesso", senza persona nè personaggio. Entrambi sono e significano maschere, lui è volto; entrambi hanno un discorso da rispettare, lui è il parlato. Come il Bene dell' "io che sto parlando, per questo non sono io", il Riggan Thompson che si parla allo specchio è l'ego filtrato che ha sabotato il linguaggio dell'inconscio. Nel mercato scoperto del teatro, ha barattato la sua essenza con il suo divenire e dovrà tornare sulle sue ali per continuare ad esistere come divenuto. Un segno di riconoscenza del cinema a papà teatro: Iñárritu e la mise en abyme vecchia quanto la storia dell'umanità, tratteggiata da una Emma Stone disintossicata e drogata di vertigini. L'attore nel ruolo di attore, il titolo del fintamente vero titolo, la parentesi da box office intellettuale estratta dalla critica del Times, la macchina da presa dietro e sul palcoscenico, la messinscena del fuori campo musicale col batterista e di quello narrativo con la maschera da Albatros.

Un'apertura alare ampia quanto la sua ossessione, che "l'empêche de marcher"; una popolarità carceriera, una terra stretta e un cielo agognato. Ma Iñárritu fa il saltimbanco della modernità da grande schermo: dal potere delle visualizzazioni su Twitter alla realtà depauperata, aumentata, truffata. E' come se le cose avessero inghiottito il loro specchio e fossero divenute trasparenti a se stesse, completamente presenti a se stesse, in piena luce, in tempo reale, in una trascrizione inesorabile. La realtà è salita sul palcoscenico ed è stata scacciata via dalla liceità della finzione. Soltanto la tecnologia collega ancora l'azione al suo fenomeno, sparso qui e là tra dispositivi mobili e senza contatto. Palpabili sono invece le abilissime inquadrature messicane che, come il palazzo di Westminster dipinto da Monet, si lasciano attraversare dal luminoso scorrere delle ombre del tempo. Chiaroscuri che si abbattono sulla ringhiera pericolante di Broadway, sorvolata da Birdman in un'allucinazione probatoria.

Obbligo o verità? Che differenza c'è se l'unica facoltà rimasta è quella di mentire? E di facultad chicana Iñárritu ne è pregno. Visionario, eppure così capace di assumere un punto di vista ribassato, di entrare nel (s)oggetto con la camera insistita, standogli dietro, senza insistenza. Autore e attore riflettono sui loro mezzi, sul motore della macchina e sulla strada transennata. "Una cosa è una cosa, non ciò che vien detto di quella cosa", eppure è la critica-nella sua pigrizia semplificatrice-a permettere che "the show goes on". L'unica suspense che resti consiste nel sapere fino a che punto il mondo possa derealizzarsi prima di soccombere alla sua scarsissima realtà o, viceversa, fin dove possa iperrealizzarsi prima di soccombere a troppa realtà. Lo stesso certo dubbio di Baudrillard rimane allo spettatore, quando Birdman varca la finestra sul mondo e vi entra volando. La gravità è un suo problema, proprio perché non gli appartiene.
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