barlettani nel mondo Roberta Dimiccoli
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La città

Roberta Dimiccoli, il Congo e la volontà di regalare sorrisi

La giovane dottoressa barlettana racconta la sua esperienza in una missione sanitaria

Un po' di Barletta in Africa. Un'avventura difficile, ma affrontata con tanta tanta voglia di aiutare delle persone che vivono in condizioni estreme, persone meno fortunate di noi e bisognose di sostegno. Roberta Dimiccoli, ortottista barlettana si è recata lo scorso mese in Congo al seguito di una missione sanitaria e ci ha voluto raccontare la sua straordinaria esperienza, grazie alla quale ha compreso molte cose che probabilmente sarebbe utile comprendessimo un po' tutti noi.

Ci descrivi un po' questa missione?
«La mia missione è stata una missione sanitaria mirata nello specifico a risolvere questioni di natura patologica ero l'unica pugliese. Nasce come un progetto mirato alla vista e infatti si chiama progetto luce. C'era un equipe, multidisciplinare con oculista, ortottista, psicologo, cardiologo, pediatra, due infermieri. Ci siamo appoggiati nel villaggio di Lundi, nella Repubblica del Congo e abbiamo avuto la possibilità di visitare gli abitanti di questo villaggio. Per informarli del nostro arrivo, diedero l'annuncio via radio e di giorno in giorno abbiamo visitato tutti gli abitanti nonostante i mezzi ridotti».

Come sei arrivata alla decisione di partire?
«Era un esperienza che volevo fare da tempo. Due anni fa, ho avuto dei contatti con l'associazione "Semi di pace" poi però per varie ragioni non riuscì a partire. Quest'anno mi hanno contattato ed allora sono partita. Questa missione era mirata a problemi della vista e quindi ho deciso di prendervi parte. Sono partita solo per mia volontà, la volontà di mettere a disposizione di chi ha più bisogno le mie conoscenze. La missione è durata 15 giorni lavorativi».

Cosa ti ha lasciato questa esperienza dal punto di vista professionale? E da quello personale?
«Dal punto di vista professionale ho scoperto patologie diverse da quelle che possiamo trovare qui e questo è ovvio. Inoltre poter dare la soluzione a difficoltà visive che per noi possono essere banali ma che per persone che vivono nella foresta sarebbero insormontabili è davvero una cosa importante. Pensate che quando uscivo dall'ambulatorio mi toccavano ed adulavano come se fossi una dea. Risolvere a chi vive nella foresta, problemi visivi è quasi come regalargli un miracolo e questa loro reazione è dunque comprensibile. Ricollegandomi a questo, posso dire che dal punto di vista personale, ho scoperto cosa significa il mal d'Africa. Vieni trattato quasi come un Dio per il solo fatto di essere bianco, puoi anche sbagliare diagnosi ma il solo fatto di essere li a loro disposizione ti rende speciale. Negli ultimi giorni, nonostante fossero finiti i farmaci loro continuavano a venire li solo per ascoltare un parere un idea che potesse confortarli. Tutto questo mi spingerebbe a tornarci».

La tua formazione, fatta nel nostro territorio, ti ha permesso di svolgere al meglio una missione così difficile?
«Sicuramente, anche se, come ho detto, bisognerebbe approfondire alcuni aspetti riguardanti patologie che qui sono difficilmente rintracciabili. Posso dire che le basi erano sufficienti ma un conto è la teoria ed un conto è la pratica, e solo andando sul campo ti rendi conto di questa differenza».

Parlando della missione con i tuoi colleghi qui a Barletta, hai riscontrato la volontà di aggregarsi a te in eventuali prossime missioni?
«Devo dire la verità, non è una cosa facile pensare di partire per esperienze simili. Molto spesso ad un iniziale entusiasmo non seguono poi i fatti. Tra l'altro quando comunicai di voler partire, molti non mi credevano. Eravamo lì in un villaggio sperduto senza elettricità, senza acqua corrente, su strade improbabili con scene che si vedono soltanto nei film e se non sei spinto dalla voglia di aiutare non è facile davvero. Pensate che per telefonare bisognava andare in cima ad una collina con un cellulare di vecchia generazione ed una scheda congolese che ti permetteva di parlare per pochi istanti, senza dimenticare che non c'era linea elettrica, ma sono generatori a carburante».

Essendo stata quella di partire, una tua iniziativa personale, hai avuto difficoltà a comunicarlo al tuo ambulatorio di riferimento?
«Inizialmente la mia decisione ha provocato un po' di stupore nel mio responsabile perché di certo non è una richiesta di tutti i giorni. In un secondo momento poi la situazione è stata compresa. Ho utilizzato dei giorni di ferie e sono partita per questa avventura».

Cosa ti è mancato di casa quando eri lì?
«Solo gli affetti. Quando si affrontano esperienze simili ti rendi conto di ciò che è superfluo. Ci alzavamo alle 5,00 per andare a dormire alle 21,30 perchè non si ha nulla da fare. Si sta bene, si scambiano le diverse impressioni, si cena insieme e si può stare bene anche senza chissà cosa. Certo bisogna anche essere fortunati, e noi lo siamo stati. Eravamo in 10 e quella situazione di precarietà ha fatto da collante tra noi. Consiglio vivamente questa esperienza, anche se può sembrare un salto nel buio, ne vale veramente la pena e ci si rende conto di quanta distanza c'è tra noi e loro, tanto che viene da chiedersi, perchè noi si e loro no? Perchè tutta questa differenza nelle condizioni di vita? Purtroppo a questa domanda non si può rispondere ma si può provare ad aiutare queste persone».
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