Martina Mele
Martina Mele
Viva

«Sono stata aggredita nel portone di casa, per anni non sono più riuscita a tornare da sola»

La storia di Martina, sopravvissuta a una aggressione

«Devo tornare a cinque anni fa con la memoria. Era un sabato sera piuttosto freddo di Aprile, rientravo a casa ed era poco più dell'una di notte. Ricordo che il rumore delle scarpe che indossavo copriva il silenzio delle vie buie che percorrevo. Fu per questo motivo che non mi resi conto del fatto che, dopo aver incrociato un uomo lungo il mio percorso, questi avesse fatto dietrofront per cominciare a seguirmi fin sotto casa mia. Stavo per chiamare l'ascensore quando, dietro il vetro del portone, lo vidi entrare mentre stava coprendosi il volto col collo della sua felpa. Spaventata, non riuscì nemmeno a scappare su per le scale. Ne seguì una colluttazione durante la quale cercai di difendermi inutilmente, dato che l'energumeno era fisicamente il triplo di me».

Le grida di Martina diventano agghiaccianti, risuonano in tutto il palazzo. Si sentono i passi veloci, sono quelli spaventati di una ragazza che cerca di mettersi al riparo e che corre con tutta la forza che possiede per raggiungere la porta di casa. «Lo feci senza neanche rendermene conto, senza che la mia volontà comandasse le corde vocali. L'energumeno biascicò qualche parola tentando forse di zittirmi, ma non riuscendo a farlo decise di uscire, non prima di avermi regalato un bel pugno in faccia mentre tentavo di chiudere il portone».

Mentre un uomo può concedersi il lusso di dimenticare di chiudere il cancello o la porta del portone, può non guardarsi le spalle mentre rincasa tranquillo nella sua dimora, pensando solo alla stanchezza che sopraggiunge o può addirittura tornare a casa la sera da solo, a Martina o a una qualsiasi altra donna o ragazza questa normalità è concessa, ma con uno stato di allarme sempre nei paraggi. Martina cerca di fare ordine tra la paura e i pensieri aggrovigliati «che irrigidivano e bloccavano qualunque muscolo del mio corpo. Ricordo di essermi data la colpa per esser tornata tardi, sola. La mia colpa. Perché una donna ancora non può ritirarsi da sola e pecca di incoscienza facendolo. Il giorno seguente mi tremavano ancora le mani».

La cosa che spaventa di tutta questa vicenda è che non ci sono stati segnali di cui preoccuparsi precedentemente. Martina è una ragazza ordinaria, che un giorno mentre infilava le chiavi nel portone della serratura, certa di essere al sicuro in quello che è l'entrata di casa, è stata aggredita, invadendo la sicurezza dell'unico luogo che è davvero casa. Sarebbe potuto succedere a chiunque e può ancora accadere a chiunque.

«È un pensiero che da un annetto in particolare occupa la mia testa. Quando ho iniziato a sentire che casi come il mio non fossero così isolati (neppure nella mia stessa città) ho iniziato a pormi più spesso il quesito. A distanza di cinque anni leggo di casi simili e mi tornano alla mente quei minuti terribili; accompagna il pensiero il disgusto per il fatto che le cose non siano poi così cambiate. È vero che ultimamente il problema sta emergendo e qualcuno sta cercando di intervenire per prevenire ed evitare che si verifichino episodi come il mio. Conosco il progetto "DonneXstrada" e sono contenta del fatto che qualcuno si stia muovendo in questa direzione. Mi piacerebbe diventare una volontaria del progetto e, inoltre, vorrei portare all'attenzione dei più la centralità di questo problema; credo che a tale scopo già denunciare e parlare della propria testimonianza sia una forma di resistenza».

Reclamare le strade che abitiamo e viviamo perché oggi per protezione, si esce muniti di spray al peperoncino, esattamente come fa ancora Martina, soprattutto se sei donna e torni a casa la notte per lavoro o semplicemente perché ti va. Reclamare le proprie strade perché un'aggressione in un luogo pubblico è tanto grave quanto una in luogo privato. Il pubblico è sotto gli occhi di tutti e la superbia di un uomo che aggredisce qualcuno in un luogo visibile a tutti si chiama privilegio.

Martina è una survivor, termine utilizzato al posto di vittima per spostare il focus sulla forza di convivere con l'accaduto, e non sulla colpa. Una donna che sopravvive dopo un evento traumatico, capitato solo perché donna. «Adesso credo che il modo migliore per tutelare me stessa sia cercare di non modificare radicalmente le mie abitudini (cosa che ho fatto per anni, dopo l'accaduto). È normale che simili avvenimenti un po' ci cambino ma non voglio che questo modifichi radicalmente la persona che ero. Giusto, insomma, diventare più consapevoli, ma che non sia rinchiudersi nel proprio guscio, diffidenti e spaventate dal mondo precludendosi di vivere come vorremmo.

Chiaramente quest'episodio mi ha traumatizzata e limitata per anni: non sono più tornata da sola a casa, cosa che mi ha resa dipendente da orari e abitudini altrui e che mi ha portata spesso a non uscire; non ho più potuto far viaggi per conto mio. Ero spaventata dal mondo, sono diventata diffidente, non riuscivo più a vivere i momenti belli con pienezza e spensieratezza. Avevo ventun anni e penso a come avvenimenti del genere possano sconvolgere le vite di una ragazzina. Non sono ancora mai del tutto sicura, tuttora mi sento vulnerabile e la cosa mi fa rabbia, anche se sicuramente il tempo ha lenito quella paura. Però, ho bisogno di guardarmi attorno quasi costantemente per monitorare la situazione accanto a me, anche se non sono sola».

Adesso, c'è la forza di una donna che reclama il suo diritto di sentirsi sicura, di proteggere la propria incolumità che non può essere lesa da alcuno sconosciuto. Non c'è alcuna meraviglia nel dire che nel 2021 questo accade ancora, nessuno stupore. Accade da anni, riportato in tutto le cronache locali e nazionali. Accade nel 2021, non è il Medioevo. Martina ci dice di averne parlato solo con gli affetti più cari, di aver interiorizzato una vergogna che non le apparteneva perché «è vero che ci si sente sporchi se qualcuno ci mette le mani addosso e solo col tempo si rispediscono le colpe al reale mittente. Ognuno necessita di tempi differenti per metabolizzare un trauma perché spesso per anestetizzare un dolore si evita di ricordare.

Dal canto mio, posso dire che parlarne mi ha aiutato tantissimo ad esorcizzare la cosa. Perciò, vorrei esortare chiunque abbia vissuto episodi simili a farlo e a non silenziarsi mai per paura di giudizi, supposizioni, ripercussioni o stigmatizzazioni, perché la nostra voce è l'unica arma di difesa efficace che abbiamo. Spesso, come dicevo, si tende a colpevolizzare la vittima (non ci è nuova la frase "se l'è cercata"), eppure io quel giorno tornavo a casa allo stesso orario di tanti altri ragazzi della mia età e portavo dei pantaloni e un cappotto lungo. Il fatto stesso che debba specificarlo mi irrita, ma è un'ulteriore conferma del fatto che no, l'abbigliamento non c'entra e non è rilevante (e in qualunque caso, una minigonna indossata non è un pretesto valido per la colpevolizzazione)».
Storie da giovani

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