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Politica
La millantata “soppressione delle province”
Regionalismi e dinamiche storiche, la nota di Domenico Vischi
Barletta - martedì 10 giugno 2014
La chiamavano "soppressione delle Province", ma in realtà si trattava di "creazione, e poi sviluppo di un nuovo mostro mangia soldi, la REGIONE". Da che le Regioni esistono materialmente, i primi anni '70, ha cominciato ad esserci e poi a dilatarsi, il famigerato "debito pubblico italiano". Ad oggi, 20 sole Regioni italiane, ci costano annualmente fino a 180 miliardi di euro. A fronte delle 110 Province italiane, che costano annualmente appena 11 miliardi di euro. La domanda è d'obbligo: ma quali sono i "veri" enti inutili e dispendiosi? Di "soppressione delle Province" si parla in Italia sin dal lontano 1946. In sede di Assemblea Costituente, molti furono gli interventi a sostegno della loro soppressione, parallelamente ad alcuni altri che erano invece favorevoli alla permanenza delle Province. I "contrari" sostenevano che con la previsione del nuovo "Ente Regione", le Province divenissero inutili. Altri, come i siciliani, che avevano sempre avuto in odio l'unità d'Italia nel senso della "Piemontesizzazione", ed erano giunti al punto di chiedere l'annessione agli Stati Uniti d'America, videro nel "regionalismo" una forma di scissione da Roma. Vedevano altresì le vecchie Province come feudi dello Stato centrale fascista, che erano sottoposte alla mano dura dei Prefetti, come il leggendario Cesare Mori. Altre forme di separatismo sotto le mentite spoglie del "regionalismo" provenivano dalla Sardegna, e dalle altre Regioni alle quali fu riconosciuto lo Statuto speciale, principalmente come forma di tutela delle minoranze etnico-linguistiche. I più accaniti "regionalisti" erano i deputati fedeli alla dottrina federalista di Cattaneo e Gioberti, per i quali le neonate Regioni dovevano assurgere a Stati nello Stato federale.
In sintesi, tutti i più accaniti ultras del regionalismo, furono come riflesso condizionato anche acerrimi nemici delle Province. E ciò perché non si capiva cosa avrebbero materialmente fatto le Regioni una volta andate a regime. Visto che le cose da fare sono in numero limitato, e non ci si può inventare altre competenze, era ovvio per essi rastrellare soldi e poteri lì dov'erano, ossia nello Stato centrale e nelle Province. Una cosa accomunava tutti i Padri Costituenti (favorevoli e contrari alle Province, indistintamente): a prescindere che le Province fossero soppresse o meno, i vecchi "Capoluoghi di Provincia" dovevano comunque mantenere il loro ruolo ed il loro status. E ciò per una ragione fondamentale: sia lo Stato che le nuove Regioni dovevano dislocare i loro Uffici periferici territoriali in ogni Capoluogo di Provincia. In buona sostanza, quando i regionalisti parlavano di "soppressione delle province", intendevano solo che "non bisognava dare rango costituzionale alle province". Intendevano altresì che le province dovessero perdere lo status di "Ente Autarchico". Per "autarchico" intendevano "ente che si governa da sé". I Costituenti desideravano quindi mantenere la "provincia-territorio", identificata con il suo Capoluogo di Provincia, e sopprimere la "provincia-ente amministrativo". Il disegno costituzionale dei regionalisti prevedeva perciò uno Stato composto da Comuni e Regioni, come enti autarchici con rango costituzionale, e lasciare i Capoluoghi di Provincia come sedi di decentramento degli Uffici periferici.
Tutti si resero subito conto che così facendo si stava attuando una forma di "centralismo regionale": ad una gestione totalitaria di Roma, venivano aggiunti altri venti "califfati", che lasciati liberi, giammai avrebbero dislocato le funzioni e le risorse finanziarie in maniera capillare. La Regione era (ed è) troppo limitata per essere uno Stato di una Repubblica Federale, ma è troppo vasta, varia e popolosa per essere un "ente locale". In buona sostanza, il regionalismo che era nato per una gestione territoriale, capillare, prossima ai cittadini, ed antitetica all'accentramento inefficiente e totalitario, si stava materializzando come la massima negazione della capillarità. Oltre a ciò, in tutta l'Italia, e specialmente nelle Città Capoluogo di Provincia, vi furono dei "mal di pancia". Nessuno era disposto a credere che il prestigio, gli Uffici e le risorse economiche che garantiva lo status di Capoluogo di Provincia, non fossero insidiati dai nuovi Capoluoghi di Regione. Se sei Capoluogo di un "territorio immaginario", e di un Ente che non ha poteri propri, perché brilla di luce riflessa, e vive delle dazioni volontarie/caritatevoli di Stato e Regione, di fatto sei destinato all'oblio. Fatto sta che i regionalisti sfegatati ebbero la peggio. In Costituzione, all'Articolo 114, fu prevista la presenza delle Province. E ciò perché si volle sancire che anche le Province, come i Comuni e le Regioni, dovevano essere enti autarchici, cioè enti veri (e non solo espressioni geografiche/virtuali) e dotati di proprio ed autonomo governo politico-elettivo, con funzioni assegnate, e con risorse personali ed economiche proprie.
Quasi trenta anni dopo la stesura della Costituzione, nei primi anni '70 il regionalismo si rimise in moto e pretese di dare attuazione alla Carta Fondamentale istituendo materialmente le Regioni, che fino ad allora erano restate appunto "sulla Carta"! Non si era mai provveduto alla materiale formazione degli enti regionali semplicemente perché "si era capito che non servivano a niente", e sarebbero stati una mera duplicazione. Ma il furore ideologico dei regionalisti doveva pur essere saziato. E puntualmente, la sbornia regionalista si traduceva anche in caccia alle streghe per le Province. Anche questa volta, tuttavia, i regionalisti mancarono di riuscire a "fare lo scalpo" alle province; ma come previsto, le Regioni assorbirono da esse molte delle competenze che avevano. Abolire del tutto le Province si presentava invece come un impegno assai arduo. E ciò proprio per le ragioni che avevano già fatto dissuadere i Padri costituenti. Tutta la pubblica amministrazione era organizzata su base provinciale (Prefetti, Questori…), e tutti i partiti, i sindacati, le associazioni di categoria… avevano un radicamento territoriale provinciale. A chi avrebbe giovato un accentramento regionale? E con quali costi si sarebbe realizzato? E con quali esiti? E la necessaria capillarità dell'azione amministrativa (onde soddisfare i cittadini) come si sarebbe ottenuta? Dagli anni '70 ad oggi, ad ogni stormir di foglie si è sempre ripetuto il mantra dell'abolizione delle province. Sempre, politici, economisti e giornalisti "di fiducia" hanno dato per "ormai spacciate" le province, che poi all'atto pratico sono sempre scampate alla scure del boia! Anzi, parallelamente alle propagandistiche iniziative legislative tese a propiziarne la soppressione, altri disegni di legge si riproponevano di istituire nuove province in Italia. Con le new entry del 2004 (Leggi 146, 147 e 148), tra cui la Provincia di Barletta (Bt), siamo oggi a 110 enti provinciali.
Tirando le somme, cosa abbiamo capito della millantata soppressione delle province? Abbiamo capito che chi la propaganda ha anche uno scopo diverso dalla mera abolizione di quelle autonomie territoriali. Lo scopo principale si è rivelato essere l'attuazione di un esasperato regionalismo perseguito da quei censori, per i quali ogni arretramento provinciale si tradurrebbe in un ampliamento delle facoltà delle Regioni. Tale colpo di mano non si è mai realizzato perché è oggettivamente necessario un livello amministrativo sovracomunale, ma "di prossimità" come quello provinciale. Da qualche anno a questa parte, le filippiche contro l'ente Provincia si sono infittite. La schiera degli abolizionisti si è ingrossata, ospitando altri opportunisti. Ma questo è argomento per un'altra nota!
[Domenico Vischi]
In sintesi, tutti i più accaniti ultras del regionalismo, furono come riflesso condizionato anche acerrimi nemici delle Province. E ciò perché non si capiva cosa avrebbero materialmente fatto le Regioni una volta andate a regime. Visto che le cose da fare sono in numero limitato, e non ci si può inventare altre competenze, era ovvio per essi rastrellare soldi e poteri lì dov'erano, ossia nello Stato centrale e nelle Province. Una cosa accomunava tutti i Padri Costituenti (favorevoli e contrari alle Province, indistintamente): a prescindere che le Province fossero soppresse o meno, i vecchi "Capoluoghi di Provincia" dovevano comunque mantenere il loro ruolo ed il loro status. E ciò per una ragione fondamentale: sia lo Stato che le nuove Regioni dovevano dislocare i loro Uffici periferici territoriali in ogni Capoluogo di Provincia. In buona sostanza, quando i regionalisti parlavano di "soppressione delle province", intendevano solo che "non bisognava dare rango costituzionale alle province". Intendevano altresì che le province dovessero perdere lo status di "Ente Autarchico". Per "autarchico" intendevano "ente che si governa da sé". I Costituenti desideravano quindi mantenere la "provincia-territorio", identificata con il suo Capoluogo di Provincia, e sopprimere la "provincia-ente amministrativo". Il disegno costituzionale dei regionalisti prevedeva perciò uno Stato composto da Comuni e Regioni, come enti autarchici con rango costituzionale, e lasciare i Capoluoghi di Provincia come sedi di decentramento degli Uffici periferici.
Tutti si resero subito conto che così facendo si stava attuando una forma di "centralismo regionale": ad una gestione totalitaria di Roma, venivano aggiunti altri venti "califfati", che lasciati liberi, giammai avrebbero dislocato le funzioni e le risorse finanziarie in maniera capillare. La Regione era (ed è) troppo limitata per essere uno Stato di una Repubblica Federale, ma è troppo vasta, varia e popolosa per essere un "ente locale". In buona sostanza, il regionalismo che era nato per una gestione territoriale, capillare, prossima ai cittadini, ed antitetica all'accentramento inefficiente e totalitario, si stava materializzando come la massima negazione della capillarità. Oltre a ciò, in tutta l'Italia, e specialmente nelle Città Capoluogo di Provincia, vi furono dei "mal di pancia". Nessuno era disposto a credere che il prestigio, gli Uffici e le risorse economiche che garantiva lo status di Capoluogo di Provincia, non fossero insidiati dai nuovi Capoluoghi di Regione. Se sei Capoluogo di un "territorio immaginario", e di un Ente che non ha poteri propri, perché brilla di luce riflessa, e vive delle dazioni volontarie/caritatevoli di Stato e Regione, di fatto sei destinato all'oblio. Fatto sta che i regionalisti sfegatati ebbero la peggio. In Costituzione, all'Articolo 114, fu prevista la presenza delle Province. E ciò perché si volle sancire che anche le Province, come i Comuni e le Regioni, dovevano essere enti autarchici, cioè enti veri (e non solo espressioni geografiche/virtuali) e dotati di proprio ed autonomo governo politico-elettivo, con funzioni assegnate, e con risorse personali ed economiche proprie.
Quasi trenta anni dopo la stesura della Costituzione, nei primi anni '70 il regionalismo si rimise in moto e pretese di dare attuazione alla Carta Fondamentale istituendo materialmente le Regioni, che fino ad allora erano restate appunto "sulla Carta"! Non si era mai provveduto alla materiale formazione degli enti regionali semplicemente perché "si era capito che non servivano a niente", e sarebbero stati una mera duplicazione. Ma il furore ideologico dei regionalisti doveva pur essere saziato. E puntualmente, la sbornia regionalista si traduceva anche in caccia alle streghe per le Province. Anche questa volta, tuttavia, i regionalisti mancarono di riuscire a "fare lo scalpo" alle province; ma come previsto, le Regioni assorbirono da esse molte delle competenze che avevano. Abolire del tutto le Province si presentava invece come un impegno assai arduo. E ciò proprio per le ragioni che avevano già fatto dissuadere i Padri costituenti. Tutta la pubblica amministrazione era organizzata su base provinciale (Prefetti, Questori…), e tutti i partiti, i sindacati, le associazioni di categoria… avevano un radicamento territoriale provinciale. A chi avrebbe giovato un accentramento regionale? E con quali costi si sarebbe realizzato? E con quali esiti? E la necessaria capillarità dell'azione amministrativa (onde soddisfare i cittadini) come si sarebbe ottenuta? Dagli anni '70 ad oggi, ad ogni stormir di foglie si è sempre ripetuto il mantra dell'abolizione delle province. Sempre, politici, economisti e giornalisti "di fiducia" hanno dato per "ormai spacciate" le province, che poi all'atto pratico sono sempre scampate alla scure del boia! Anzi, parallelamente alle propagandistiche iniziative legislative tese a propiziarne la soppressione, altri disegni di legge si riproponevano di istituire nuove province in Italia. Con le new entry del 2004 (Leggi 146, 147 e 148), tra cui la Provincia di Barletta (Bt), siamo oggi a 110 enti provinciali.
Tirando le somme, cosa abbiamo capito della millantata soppressione delle province? Abbiamo capito che chi la propaganda ha anche uno scopo diverso dalla mera abolizione di quelle autonomie territoriali. Lo scopo principale si è rivelato essere l'attuazione di un esasperato regionalismo perseguito da quei censori, per i quali ogni arretramento provinciale si tradurrebbe in un ampliamento delle facoltà delle Regioni. Tale colpo di mano non si è mai realizzato perché è oggettivamente necessario un livello amministrativo sovracomunale, ma "di prossimità" come quello provinciale. Da qualche anno a questa parte, le filippiche contro l'ente Provincia si sono infittite. La schiera degli abolizionisti si è ingrossata, ospitando altri opportunisti. Ma questo è argomento per un'altra nota!
[Domenico Vischi]
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