Fiaccolata
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La città

Fiaccole dopo il crollo. Lutto e dignità

Un corteo immerso nel silenzio ha pregato per le vittime. Antonella, Giovanna, Matilde, Maria, Tina

Migliaia, decine di migliaia i cittadini di Barletta hanno calpestato l'asfalto sorreggendo piccole fiaccole che hanno riscaldato i nomi delle vittime dell'evitabile crollo di via Roma.

Persino imprevedibile è la dignità che l'infinito corteo ha disegnato, percorrendo le strade principali raggiungendo in preghiera la cattedrale. Barletta c'è. La gente ha voluto esserci, raccogliendosi alla spicciolata in piazza Aldo Moro, a pochi metri dal luogo del crollo. Poi è diventata un unico nucleo, una identificabile voce, quella si della preghiera, ma anche quella che non vuole sentire parlare di lavoro nero ma di responsabilità chiare sulle cause della tragedia. La voce di don Sabino Lattanzio parroco della chiesa di San Giacomo ha echeggiato nitida, implacabile, inequivocabile al megafono quando ha ricordato il fine della interminabile fiaccolata: "non c'entra il lavoro nero, ma la superficialità di chi doveva controllare". I passi di bambini, donne, uomini sono stati felpati, meditati, tesi a non alzare la polvere del lutto e del dolore incolmabile. La polvere arriva da via Roma, dal crollo, dal ricordo della mattina del 3 ottobre che perseverante rimarrà nella memoria dei barlettani e dell'Italia tutta che non tutto ha capito di questa città bella, orgogliosa, coerente e altruista. Sta offrendo ai congiunti in maglia nera e stampigliati i nomi delle ragazze, tutto quanto è nelle loro capacità.

Chi pensava di distrarre la città con differenti motivazioni che non fossero quelle delle macerie e dei lutti, si è sbagliato. I responsabili, perché questi esistono, sono stati individuati, i barlettani li conoscono e non dimenticano. Neppure l'anziana donna settantasettenne che si stacca dal corteo e chissà perché viene incontro a me e mia moglie dimenticherà. Grida e si giustifica: «non sento quasi nulla, sono sorda per questo parlo ad alta voce». Molti del corteo ci guardano. Le chiedo di parlare con voce sommessa. Ha lacrime agli occhi quando le stringo un polso per aiutarla a camminare. «Ci volevano i morti per risvegliare Barletta, per far piangere questa gente». I suoi capelli bianchi arruffati si allontanano con una flemma pericolosa. La inseguo e le chiedo il nome. «Adalgisa Chieffi». Dove abita signora? le domando. E lei esplode chiassosa, dimenticando la sua quasi totale sordità e le sue tenere giustificazioni. «in via Milazzo», mi precisa il numero civico. Mi grida ancora la sua disperazione perché anche la sua casa è pericolante, è legata con catene. Le sue mani bianche, rugose, solitarie in quel corteo gigantesco, mimano il pericolo. Le dò sicuro appuntamento per domani. Lei mi grida ancora: «se vieni bussa forte, molto forte». Per rassicurarla o per rassicurare me stesso le dico che sono un giornalista, avvicina il suo orecchio alla mia bocca, capisce e mi sorride.

Il corteo, le luci dei lumini sono interminabili. All'improvviso, senza accordo alcuno si alza l'Ave Maria che diventa una eco, un sibilo bellissimo. Dopo molte perplessità amo questa città piena di dolore e di amore per il prossimo che però è morto sotto le macerie di un palazzo crollato da solo poche ore. Si, è vero è crollato. Lo dicono i muri tappezzati della città: Antonella, Giovanna, Matilde, Maria, Tina.

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