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Ermanno Bencivenga presenta "Case" con Tommy Dibari, alla Libreria "Penna Blu" di Barletta. Foto Floriana Doronzo
Eventi

“Case" sparse e strette: Ermanno Bencivenga a Barletta

Tommy Dibari presenta il nuovo libro del professore italo-americano, edito da Cairo

Entriamo, ci sentiamo a casa, baciamo i muri, scappiamo. La casa è solitamente il luogo della permanenza, del rifugio, del benessere; ma può trasformarsi in un mostro soffocante, quando il nemico non è in casa, ma è la casa. Eppure la mobilità giovanile d'allora e di oggi ha sempre spinto gli esseri umani a misurarsi con luoghi diversi da quelli della nascita, a fare dell'estraneo il suo familiare coatto e dell'ascensore l'unico attimo di isolamento prima della condivisione estrema. "Avevo una casa, sì, ma a quale scopo?" recita il retro del libro "Case" di Ermanno Bencivenga, presentato dallo scrittore barlettano Tommy Dibari e dal vice direttore di Cairo Editori Marco Garavaglia.

Si può fare filosofia con un concetto così quotidiano, comune, vicino e usurato come la casa? La questione neanche si pone: i pensieri più alti partono dalle cose più basse, quelle sotto gli occhi di tutti, quelle su cui ognuno può dire la sua in uno scambio di idee che, addirittura, supera la riflessione filosofica. E ieri, alla Libreria "La Penna Blu" di Barletta, la forma concettuale di casa è stata rimodellata con esperienze personali, significati linguistici, percezioni culturali e forze emotive. Bencivenga vive da 35 anni negli USA e di case ne ha cambiate tante, ma in ciascuna di queste permane un'aura di affetto, di vissuto, di ricordo, di distacco. Da Professore di filosofia all'Università della California, da saggista e da uomo, Bencivenga parte dal presupposto kantiano che la materia è animata: quando in casa non c'è nessuno, rimangono gli oggetti, quei corpi dotati di uno spirito, di una loro ragion d'essere. Bocciate, quindi, le visioni positiviste di Francis Bacon e René Descartes, promuoviamo lo spiritismo olistico e amoroso di Tommaso Campanella e Giordano Bruno, condannati per aver detto che l'anima umana non è la sola forma tensiva della Terra. Il mondo ha una sua tensione, ora verso l'uomo, ora verso l'ordine cosmico, e il suo abitante è chiamato a ricevere questa energia e a comprenderla, affinché non si esaurisca. Con diversi racconti, Bencivenga ci fa attraversare lo spettro di colori delle porte domestiche, lasciandoci spiare le varie declinazioni del rapporto io-ambiente (strumentale, tormentato, conservatore, occidentale). Dalla geometria lineare e calcolata all'apertura circolare dell'open space; dalla socialità all'isolamento, dall'approccio viscerale a quello conflittuale; dall'ostentazione al nascondiglio; dall'orgoglio della casa come immagine sociale alla vergogna da terzo stato; dalle tradizioni dei nonni, alla superficialità dei giovani.

Un luogo diventa una casa quando c'è partecipazione, quando rapisce la nostra attenzione e lasciamo che si prenda parte del nostro affetto. E ci sono tante città in cui potersi sentire a casa e tante case in cui ci si può sentire alieni, come nelle grandi città. Questo, è chiaro, dipende dalle percezioni di ognuno e non si può pensare a un concetto unitario della parola "casa". Tuttavia, essa-in ambito comunicativo-ha pressoché una denotazione fissa: nell'immaginario collettivo, rievoca sempre qualcosa di buono, di bello, di tranquillizzante e difensivo, ma a volte è la fortezza da attaccare, il fattore impedente. "Per quanto mi riguardava, poteva anche venire un terremoto e portarsela via" dice il protagonista di New York, la città con cui si chiude "Case". Non è raro che l'habitus trovato nell'armadio di casa, a un certo punto (o forse da sempre), non stia più addosso, lo si senta inadeguato, troppo largo o troppo stretto. Si riesce soltanto ad abitare la soglia, a non metterci entrambi i piedi dentro, a tenersi pronti per la fuga. Il corridoio ha una lunghezza stringente, il salone un'ampiezza soffocante, la cucina ti divora e il bagno ti annega. Si vive in una sorta di nomadismo domestico, dove il vero luogo natio-come diceva Marguerite Yourcenar –è quello in cui, per la prima volta, si è posato uno sguardo consapevole su stessi.
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