14 marzo 1956
14 marzo 1956
La città

Eccidio del 14 marzo 1956, il racconto di Michele Grimaldi

La nota dello storico e archivista di Stato

«Qualcuno ha, in modo esaustivo, sentenziato "Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario". Il riferimento è agli avvenimenti accaduti 68 anni fa, il 14 marzo del 1956 che causarono la morte di tre lavoratori che avevano avuto l'unica colpa di chiedere qualcosa da portare a casa e sfamare le proprie famiglie arrivate al limite dell'umana resistenza È stato, senza alcun ombra di dubbio, un avvenimento tragico che ha scosso la nazione intera e segnato in maniera indelebile la vita di tantissime persone e delle loro famiglie. Tutti ricordano il freddo e le precipitazioni nevose di qualche tempo fa, però, nulla a che vedere con l'incredibile e storica nevicata del 1956 che si scatenò in tutta Italia, Puglia compresa». Così lo storico e archivista di Stato, Michele Grimaldi.

«Dalle cronache dell'epoca si può apprendere che nevicò, senza soluzione di continuità, dal 2 febbraio (giorno della candelora) sino alla prima metà del mese successivo, cioè per circa 40 giorni, situazione unica per le nostre parti e le temperature scesero tra i 3 e i 7 gradi sotto zero. Ciò fece si che la neve non si sciogliesse più, indurendosi sino a diventare vero e proprio marmo.

Le abitazioni e le campagne rimasero senza viveri; coltivazioni e bestiame furono sterminati dal freddo e gli agricoltori (il numero risultante al centro nazionale della P.O.A. in Barletta era di 2600 tra proprietari e braccianti a giornata) non poterono recarsi nei fondi per lavorare e procurarsi l'indispensabile per non far morire, letteralmente, di fame i propri cari. La miseria era veramente tantissima!

I 600 spalatori reclutati e provenienti da fuori zona, non riuscirono a risolvere i problemi. Per tentare di alleggerire, almeno in parte, la drammatica situazione che sarebbe potuta degenerare (come poi tragicamente è accaduto), diversi aerei americani, provenienti dalla Germania, lanciarono con paracaduti moltissimi pacchi contenenti beni di prima necessità (2 kg. di farina, uno di pasta ed una scatola di formaggio di oltre 3 chili).
Dagli atti del processo si può apprendere che il Sindaco barlettano dell'epoca Giovanni Paparella (socialista), a capo di un'amministrazione di sinistra, chiese al clero locale, maggiormente radicato sul territorio e con personale a disposizione (cosa che mancava all'ente comunale) di effettuare la distribuzione dei pacchi viveri forniti dagli americani e dal Soccorso Invernale, attraverso la Pontificia Opera di Assistenza (P.O.A.).
I pacchi viveri furono portati nell'ex Caserma Stennio in via Manfredi al civico 22 ed in quel luogo il sacerdote don Francesco "Ciccio" Francia, vice presidente della P.O.A. di Barletta, ne curava la distribuzione aiutato da volontari. Purtroppo parrebbe, sempre facendo riferimento agli atti processuali, che la distribuzione dei pacchi non fosse proprio equa, al contrario!

Proprio in conseguenza di questa autonomia nel distribuire i pacchi viveri, la locale camera del lavoro della C.G.I.L. organizzò una marcia di protesta che, partita da piazza Roma, avrebbe dovuto terminare il suo svolgersi sotto il Palazzo di Città (all'epoca ubicato in via Municipio dove aveva sede il comando della Polizia Urbana). Però, man mano che il corteo si snodava per le vie della città, gli aderenti, da poche decine, divennero quasi tremila e purtroppo le azioni dei manifestanti, divenute incontrollabili per il superato limite umano della sopportazione, sfociarono nella violenza.
Nel frattempo, allertati dalle autorità cittadine, da Bari erano giunti in città due reparti della Polizia, la famigerata Celere di Scelba (all'epoca Ministro dell'Interno) che si schierò a protezione dello stabile di via Manfredi.

Furono fatti entrare nell'ex caserma alcuni delegati dei manifestanti (Borraccino, Giacomo Corcella, Giovanni Damiani e altre donne e uomini ma Don Ciccio Francia accettò di parlare solo con Damiani) però, le posizioni si irrigidirono immediatamente e dopo l'ennesimo rifiuto a distribuire i viveri (dagli atti processuali risultò che fu lo stesso Sindaco Paparella a chiedere ai sacerdoti la sospensione della distribuzione perché i pacchi erano insufficienti per poter accontentare tutti), la folla esercitò una forte pressione sul portone finché questo cedette ed invasero il cortile. Fu il primo atto della tragedia!
Dopo aver, con la forza, abbattuto il portone d'ingresso e penetrati nell'atrio dell'immobile dove si trovavano i locali che stipavano i pacchi (poco più di mille ed ovviamente insufficienti), ebbe inizio una fitta sassaiola verso i vetri delle porte oltre le quali operavano gli addetti alla distribuzione "[...] assistenti sociali e pie donne della Chiesa".

Gli agenti di polizia dopo un iniziale fase di contenimento che non ottenne i risultati sperati, cercò di respingere i dimostranti che nel frattempo erano penetrati in gran numero nei locali. Un agente, colpito ripetutamente da sassi che gli avevano fatto cadere il casco e procurato lesioni al capo, si inginocchiò ed iniziò a sparare verso la folla. Si rivelò quello un segnale per gli altri poliziotti i quali, a loro volta, aprirono il fuoco ad altezza d'uomo.
Secondo il rapporto dettagliatissimo dei Carabinieri, furono esplosi ben 467 colpi di mitra e 374 di pistola. I braccianti furono inseguiti in tutti i vicoli intorno a piazza Plebiscito. Sul selciato antistante l'ex convento rimasero 2 morti: Giuseppe Spadaro, 49 anni e sette figli, dei quali il più grande 16 anni e il più piccolo 14 mesi e Giuseppe Dicorato di 28 anni. Un terzo manifestante, Giuseppe Loiodice di 21 anni, ferito negli scontri, morirà in ospedale dopo 15 giorni di sofferenze.

I fatti ebbero una eco nazionale. Tra i tanti che presero posizione ci fu soprattutto Giuseppe Di Vittorio, padre del sindacato, il quale commentò sull'Unità " Basta! Ancora una volta sangue umano. Sangue di povera gente sparso per il diritto alla sopravvivenza, questa volta nella civilissima Barletta".

Alle esequie delle vittime partecipò un interminabile e silenzioso corteo che vide tra gli altri ben cinquanta parlamentari.

Subito dopo l'estremo saluto alle vittime, si mise in moto la macchina della giustizia e … arrivarono elogi e gratifiche per le forze dell'ordine che spararono "…per sedare il tumulto e il moto sedizioso", mentre centinaia di braccianti furono denunciati, sindacalisti arrestati ed i soli che videro archiviata la loro responsabilità furono … i morti.
L'istruttoria del caso terminò nel 1961 con il rinvio a giudizio di quaranta manifestanti per "resistenza aggravata e adunata sediziosa". Poi nel 1963 la sentenza di 1° grado e nel 1967 (ben 11 anni dopo i fatti!) la Cassazione assolveva per insufficienza di prove non chi aveva sparato ma chi era stato il bersaglio».
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