Beppino Englaro
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Beppino Englaro racconta a Barlettalife la tragedia della figlia Eluana

Questa sera sarà ospite di un convegno nella Sala Rossa

Una tragica vicenda privata diventata pubblica, e che ha interrogato e continua ad interrogare l'Italia intera. Parliamo della vicenda di Eluana Englaro, e della battaglia portata avanti dalla sua famiglia, ed in particolare da suo padre. Beppino Englaro è infatti oggi a Barletta, per partecipare, alle 18.30 in Sala Rossa, ad un convegno organizzato dal Rotay Cub Barletta, dal titolo "Liberi di decidere: dov'è il confine tra cura e accanimento terapeutico?", alla presenza di altri relatori, come riportato nella nostra agenda eventi. Englaro ha concesso volentieri a Barlettalife un'intervista, nella quale ha ripercorso le tappe principali di una vicenda durata 17 anni e 22 giorni.

Signor Englaro, qual è il motivo che ancora oggi la spinge a girare l'Italia in lungo e in largo, e prendere ad esempio come ha fatto oggi (ieri ndr) un aereo, per essere qui a Barletta ad incontrare sempre nuova gente?
«Il 18 sono esattamente 22 anni (dall'incidente stradale di Eluana ndr). Ci sono voluti 17 anni e 22 giorni per portare a termine la vicenda. Da allora la gente ha voluto essere informata, perché nonostante la vicenda sia molto semplice e lineare, c'è ancora molta confusione e disinformazione. Quindi, quando viene organizzato un incontro come quello che avverrà domani (oggi ndr), è chiaro che è giusto che io dia ancora il mio contributo. E' il problema di una libertà di un diritto fondamentale del quale ci si accorge troppo tardi. Noi no: noi avevamo un'idea, e abbiamo trovato la situazione culturale che abbiamo trovato. Questi incontri servono alla conoscenza e alla consapevolezza, per non poter dire di non sapere».

E lei come giudica quella situazione culturale oggi, a 22 anni di distanza?
«Un suo collega, già più di un secolo fa, parlo di Pulitzer, aveva detto che un'opinione pubblica ben informata è come una corte suprema alla quale ci si può sempre rivolgere quando ci sono delle ingiustizie. Quando io mi sono rivolto nel lontano gennaio del 1992, ho trovato il deserto. Nessuno voleva affrontare questo problema. Praticamente mi dicevano: "come, non lo sai che è così?". Che l'unico diritto che hai in questa situazione, è nessun diritto. Io volevo semplicemente dialogare col medico, perché avevamo percepito determinati pericoli, e volevamo sapere fino a che punto loro si potevano spingere. E loro ci hanno detto che non c'era niente da dialogare, che loro non potevano non curare. Ed è quello che hanno fatto esattamente: cioè tutte le persone che si trovavano nella situazione di Eluana dovevano avere le migliori cure che la scienza medica disponeva. Io ho chiesto se , a questo punto, la medicina era al servizio della non morte a qualsiasi condizione, o se era al servizio della persona nella sua complessità e interezza».

Nei 17 anni, tra il 1992 e il 2009, come si è evoluta la vicenda?
«Per trovare un interlocutore, ho dovuto attendere il 1995, perché ho visto una trasmissione televisiva dove parlava il presidente del comitato nazionale di bioetica (che è stato istituito nel 1990 dall'allora presidente Andreotti), un professore di filosofia del diritto, prof. Francesco D'Agostino, che dialogava con il prof. Demetrio Neri, che insegna Bioetica a Messina, e con il neurologo, prof. Carlo Alberto Defanti. Quest'ultimo ha parlato, e l'ho sentito per la prima volta, di quelle persone che la medicina porta nella condizione in cui aveva portato Eluana, e che lei conosceva nello specifico per la vicenda del suo amico Alessandro (vedi box a lato ndr). Questo neurologo era anche presidente della consulta di bioetica di Milano, che era ed è un'associazione apolitica e aconfessionale. Ci son voluti poi 4 anni perché la vicenda diventasse pubblica. Di questi temi, nessuno ne voleva parlare. In questa consulta di bioetica noi eravamo come dei carbonari che ci riunivamo per vedere che sbocco trovare per la rivendicazione di queste libertà e diritti fondamentali. Cosa rivendicavamo? Un semplice no all'offerta terapeutica, lascia che la morte accada. Per questa rivendicazione, in un regime costituzionale, bisognava rivolgersi alla magistratura. La prima risposta concreta fu quella della Corte d'Appello di Milano nel 1999, che diede risposta negativa. La ragazza in quella condizione aveva come terapia di fondo l'alimentazione e l'idratazione forzata. La Corte d'Appello aveva capito che la rivendicazione era giusta, perché la ragazza non era stata capace di intendere e di volere sin dal primo momento e aveva bisogno di essere rappresentata, ed è stato così nominato un tutore. La Corte disse di no perché nel contesto italiano non era chiaro, né dal punto di vista clinico né giuridico, se questa terapia fosse una terapia o un mezzo di sostentamento. L'allora ministro della salute Veronesi nominò una commissione per esprimere un parere. Questa commissione disse che era una terapia. Dal punto di vista del diritto, io potevo quindi dire di no a questa terapia. Nel frattempo c'era stata la legge 145 del 28 marzo 2001, di ratifica della Convenzione internazionale di Oviedo, che diceva che per qualsiasi intervento su una persona maggiorenne nella condizione di Eluana, c'era bisogno del consenso. Tornammo allora di nuovo dalla magistratura, ma ci dissero di nuovo di no, perché erano ancora perplessi. Arrivammo poi alla Corte suprema di Cassazione nel 2005, ma ci risposero che nella richiesta qualcosa non era stato rispettato: mancava il curatore speciale di Eluana, una figura diciamo in contraddittorio con il tutore, sempre a tutela di Eluana. Fu così nominato il curatore speciale, per poter tornare a fare la richiesta».

«La risposta definitiva alla fine è arrivata 15 anni e 9 mesi dopo (l'incidente di Eluana ndr), il 16 ottobre 2007, 5.750 giorni, dove è stato chiaro quello che per noi era già chiaro nel 1992: principi di diritto in uno stato di diritto, perfettamente allineati alla nostra Costituzione; l'autodeterminazione terapeutica, che per Eluana avveniva attraverso il tutore e il curatore speciale, non può incontrare un limite, anche se ne consegue la morte, e non ha niente a che vedere con l'eutanasia. Le società scientifiche nazionali e internazionali avevano dato un loro parere sull'alimentazione e l'idratazione forzata, che era per loro una terapia. La sentenza ha detto poi anche che nessuno può decidere al posto né per un'altra persona, ma bisogna decidere con l'altra persona. E noi, sin dal primo momento, dando voce all'Eluana, decidevamo con Eluana. E poi ha chiarito anche che il medico se lo deve scordare questo potere: può intervenire nel momento dell'emergenza, ma dopo l'emergenza non può dire io non posso non curare, si deve chiedere cosa vuole la persona. Per la Cassazione, nella vicenda di Eluana, doveva essere chiaro: che la sua condizione clinica era irreversibile (che per la medicina significa altissima probabilità, perché non esiste l'assoluto; l'altissima probabilità c'era già dopo due anni, sarebbe stata normale già dopo sei mesi, immaginiamo dopo 16 anni); che i convincimenti etici, culturali, filosofici, confessionali, di Eluana fossero quelli (per noi erano già chiari). Tutte le sentenze precedenti (la sentenza del giudice tutelare, tre del Tribunale di Lecco, tre della Corte d'Appello di Milano, uno della Cassazione) sono state cassate. Tutto veniva rimesso ad una nuova sezione della Corte d'Appello di Milano per la valutazione e l'autorizzazione, come poi è stato fatto».

«Le televisioni si sono occupate della vicenda il 14 giugno del 2000, durante un'incontro all'Università Statale di Milano. Il problema dal punto di vista mediatico è emerso solo allora. Quel giorno le istituzioni erano state investite del compito di affrontare il problema, perché una nazione civile deve dare una risposta a quelle migliaia di persone che la medicina porta in quelle condizioni. Le istituzioni però non avevano fatto niente, la magistratura invece non poteva non rispondere ad una domanda di giustizia. E quando la magistratura ha risposto, per i nostri casini politici, soprattutto quelli dell'ex presidente del consiglio Berlusconi con la magistratura, è stato sollevato un conflitto istituzionale dicendo che la magistratura non può con sentenze creative dare risposte a temi sensibili, e che questo spetta al Parlamento. Siamo così dovuti tornare in Cassazione, che ha chiarito che non c'era nessun conflitto di attribuzione. C'è stato il decreto della Corte d'Appello del 9 luglio del 2008, che dovevamo attuare. Lì ci ha bloccati Formigoni (allora presidente della regione Lombardia ndr) e abbiamo dovuto attendere la risposta della Cassazione. Quando il 13 novembre 2008 abbiamo avuto la risposta e dovevamo attuare il decreto, lì si è scatenato l'inferno. Hanno cominciato a bloccare le strutture. Queste situazioni le crea la medicina dentro la scientificità clinica e nelle strutture cliniche, e se ne esce dentro la scientificità clinica e nelle strutture cliniche. Quindi loro dovevano dare una struttura clinica per attuare il decreto. Formigoni ha detto no in Lombardia. Sono andato fuori. Avevo trovato una struttura, la casa di cura Città di Udine, che si metteva a disposizione gratuitamente, ma l'allora ministro della Salute Sacconi disse alla struttura: se voi attuate questo decreto, andate incontro a "conseguenze inimmaginabili". Cioè gli toglieva la convenzione. Il cda di questa struttura se l'è fatta sotto e non ha avuto la forza di dire no: si è fatta ricattare dal ministro della Salute. Siamo stati costretti a trovare una struttura non ricattabile. E lì poi si è scatenato tutto quello che sappiamo».

Eluana e la sua vita - «Esattamente un anno prima dell'incidente, il 17 gennaio del 1991, nello stesso reparto di rianimazione in cui è capitata lei un'anno dopo, cioè il 18 gennaio del 1992, Eluana andò a trovare un suo amico più o meno nella stessa situazione. Quindi lei aveva visto cos'era la rianimazione ad oltranza e quale sbocco ci può essere in tal caso. Ma lei si era già espressa per altri incidenti capitati ad altri, già da quando lei aveva 16-17 anni. Aveva un'idea molto chiara sulla sua vita. Che altri potessero disporne, come noi abbiamo constatato, che il medico avesse questo potere di dire io non posso non curare e portare avanti la rianimazione ad oltranza indipendentemente da quale sbocco poi ci poteva essere, lei, avendo percepito questo sbocco, diceva semplicemente questo: la morte fa parte della vita. E' così banale doverlo dire. Quello che non fa parte della vita, è dove porta la medicina quando va avanti senza il consenso del diretto interessato, e crea queste situazioni che per Eluana sono di gran lunga peggiori della morte. Ma non solo per Eluana. Nella nostra famiglia, questo può sembrare molto strano, l'approfondimento delle tematiche vita, morte, dignità e libertà, era già stato fatto prima di questo incidente. C'è una lettera dell'Eluana, del Natale 1991, neanche un mese prima del suo incidente, che noi abbiamo trovato 15 anni dopo, nella quale lei aveva espresso quali erano i rapporti familiari. Ma noi non avevamo bisogno di quella lettera per sapere quello che avrebbe voluto Eluana in questa situazione. Lei ha scritto: "Noi tre formiamo un nucleo molto forte, basato sul rispetto e l'aiuto reciproco". Per cui, in questa situazione, per noi darle voce è stata la cosa più ovvia e più banale del mondo. Che lei venisse rispettata per i suoi convincimenti, dal momento che aveva le idee chiare sulla sua vita e non aveva il tabù della morte. Il suo tabù era quello che aveva visto nello specifico della situazione del suo amico Alessandro. Che non fossero altri a disporre della sua vita, che ci dessero le risposte che ci hanno dato, e che poi quando hanno creato questa condizione come prognosi e diagnosi definitiva, che è stata solo 2 anni dopo, e poteva essere già dopo 6 mesi, ma loro hanno tutelato Eluana al massimo livello. Per arrivare alla diagnosi definitiva ci hanno messo 2 anni. Poi di fronte a questo ho detto: e adesso? Queste situazioni le crea la medicina, non esistono in natura. Sono sbocchi non voluti e che non si possono prevedere, quando si va avanti con la rianimazione ad oltranza. Chi le conosce queste situazioni? Normalmente chi ci cade dentro e chi le crea, la medicina. Noi non eravamo impreparati e volevamo dialogare. Il medico capì che noi eravamo in grado in qualsiasi momento di dire un semplice "no, grazie" all'offerta terapeutica, "lascia che la morte accada". E questo sconvolse il medico, per lui non esisteva che un genitore potesse parlare con lui in questi termini, come per noi era inconcepibile che un medico potesse rispondere "non posso non curare". Non ci sono risposte, non ci sono soluzioni: noi avevamo la prova provata che la medicina era al servizio della non morte, a qualsiasi condizione. Eluana ha avuto il peggior esito che si poteva avere in questa situazione, nonostante avesse avuto le migliori cure, però a noi da subito ci era stato detto che lo stato dell'arte della medicina era di poco superiore allo zero e le incognite alle quali andava incontro Eluana erano a 360 gradi. E quindi per la medicina, tutto quello che non è né morte celebrale né uno stadio terminale, è vita a tutti gli effetti, e si continua a tenerla in vita in quelle condizioni».

Per voi quindi è stato sin dal primo momento accanimento terapeutico?
«Io ho sempre parlato di violenza terapeutica. Quando uno non vuole una cosa, viene violentato. Chi non ha conosciuto la ragazza, il suo desiderio di libertà, e quello che lei avvertiva come violenza: quella era violenza. Lei per il suo amico Alessandro è andata ad accendere un cero perché morisse, non perché succedesse chissà che cosa. Questo ragazzo aveva come soprannome furia, e per lei vedere questo amico imbrigliato in questi meccanismi per la rianimazione ad oltranza, non esisteva. Tutti sappiamo, chi è capace di intendere e di volere, che si può dialogare con il medico, e gli si può dire un sì o un no a qualsiasi tipo di terapia. Perdere un diritto costituzionale e discriminare le persone perché improvvisamente non sono più capaci di intendere e di volere, non esiste. Vita per Eluana è quella a cui lei poteva dare un senso, non che potessero darglielo altri. Vita per lei era libertà di vivere, non condanna a vivere. Lei nel suo amico Alessandro aveva visto una condanna a vivere».

«Mandela, che è morto poco tempo fa, rivendicava il più banale dei diritti: la parità tra bianchi e neri. E' stato in galera per 27 anni. Eluana rivendicava anche lei il più banale dei diritti: un semplice no grazie all'offerta terapeutica, lascia che la morte accada. Un diritto che doveva essere già possibile nel gennaio del 1992, secondo la nostra Costituzione. Noi, come famiglia non eravamo impreparati ad affrontare questo problema. Abbiamo trovato questa cultura in questo paese. Queste situazioni, negli Stati Uniti e in Inghilterra, erano già risolte. Per Eluana siamo andati incontro ad una tragedia nella tragedia: la tragedia di perdere una figlia è tremenda ma umana, l'altra tragedia è stata la più disumana che ci possa essere. Un inferno. Uno deve avere le idee chiare, deve mettere nero su bianco, in modo da non trovarsi scoperto in queste situazioni. Ora, attraverso questa vicenda, se una persona vuole, non può dire di non sapere. Ma lo deve volere. I cambiamenti culturali hanno dei tempi biblici, e l'approfondimento costa fatica. Uno dice: tanto non accade a me. Liberissimo, la non scelta è anche una scelta. La scelta è un genere filosofico che appartiene al genere umano. Dopo 22 anni tutto quello che ho sentito contro questa libertà e questo diritto, per me non ha un senso. Ma tutte le altre posizioni hanno il diritto di esistere, non mi sognerei mai di metterle in discussione. Vale il primato della propria coscienza».
Beppino Englaro intervistato da BarlettalifeBeppino Englaro intervistato da BarlettalifeBeppino Englaro intervistato da Barlettalife
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