Giappone
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Il ricordo di un barlettano a Tokyo

Ad un anno dal terremoto che sconvolse il mondo

Alessandro Centonze, 29 anni, vive e lavora a Tokyo, in un'azienda di import-export di cibi italiani, dopo aver avuto altre precedenti esperienze lavorative sempre a Tokyo, come insegnante di italiano, lavoratore in un ristorante italiano, e head hunter, seguite alla laurea in scienze politiche presso l'università "L'Orientale" di Napoli. Vista l'omonimia dei cognomi, forse è corretto dire che Alessandro è mio fratello. L'intervista vuole essere semplicemente una conversazione per offrire testimonianza dell'esperienza di un barlettano all'estero, così come questa testata già fa proficuamente. Inevitabile è stato inoltre parlare con lui del tragico terremoto giapponese avvenuto l'anno scorso, in occasione dell'anniversario di questa immane tragedia.

Alessandro, da quanto tempo vivi a Tokyo?
«Vivo a Tokyo dal settembre del 2006».

Quando, come, e perché il Giappone?
«Forse sono atipico per la mia generazione, ma non sono andato in Giappone per gli anime. Anzi, non amo affatto quel tipo di stranieri, che credono che il Giappone sia un enorme fumetto e dicono di amarlo senza averne mai fatto esperienza. Tornando alla domanda, nella libreria dei miei genitori c'era un libro che aveva casualmente catturato la mia attenzione. Era il "Dao De Jing" di Lao Tse. Era una edizione che presentava la versione sia in cinese che in italiano del testo del filosofo cinese. Quando ho visto gli ideogrammi sono rimasto affascinato. Ricordo che ho impiegato una estate a cercare tutti i significati degli ideogrammi e la loro corrispondenza in italiano. Era il 1994 e avevo 11 anni. Così iniziai ad appassionarmi all'Estremo Oriente e senza pensarci troppo, quasi naturalmente, la mia attenzione si rivolse via via sempre più al Giappone».

Quando hai capito che il Giappone poteva essere la tua prospettiva di vita?
«Inizialmente il Giappone era un'esperienza che volevo fare. Per cui le estati del 2003, 2004 e 2005 ho collaborato con una missione francescana a Joetsu nella prefettura di Niigata. All'Università intanto studiavo Scienze Politiche con curriculum incentrato sul Giappone e ho vinto una borsa di studio per un anno alla Sophia University di Tokyo. Nel 2007 ho iniziato a lavorare a Tokyo come insegnante di italiano e in sala presso un ristorante italiano. Vivendo e lavorando a Tokyo ho sentito e capito che era il posto che mi poteva dare una strada».

Vedendo Tokyo mi è venuto in mente un ossimoro: "caos ordinato". Tu, vivendoci, che idea hai di questa città e della sua gente, in positivo e in negativo?
«Non è facile definire una città che non è una città. Tokyo è un insieme di città, villaggi, distretti ed isole. Ci sono i manager che vivono al 40esimo piano di un grattacielo di cristallo e i fattori che rivendono gli escrementi delle loro amate mucche ai contadini che li ripagano in riso e verdure. Parlando della Tokyo che tutti intendono, ovvero quella dei 23 distretti centrali, ciò che dici tu, ovvero del "caos ordinato" non è affatto sbagliato. Ciò che io percepisco come negativo è che a Tokyo tutto è in vendita. Pubblicità, volantini, cartelloni, altoparlanti, ragazze e ragazzi che ti invitano in quel locale, o ti propinano pacchetti di fazzoletti gratis con su stampata la pubblicità di quel negozio o di quell'altro karaoke. Insomma è il cuore pulsante dell'economia e del commercio nipponico. Ad ogni angolo di strada. Almeno delle strade trafficate, perché basta girare l'angolo che iniziano zone tranquille, poco illuminate, senza stress. Solo case, case e case. Ciò che mi colpì molto all'arrivo a Tokyo fu la presenza predominante di casette familiari. Certo i condomini son molti, ma le villette a due piani con mini giardino sono una enormità! Di quale megalopoli si può dire lo stesso? Ecco perché c'è poco spazio. Tutto va pensato e sfruttato, fino all'ultimo millimetro. Altrimenti non basta. Ciò che è positivo è che io che vivo a 40km dal lavoro, ci metto un'ora e un quarto per arrivare in ufficio grazie a bus e treni (il cui biglietto mensile è totalmente rimborsato dall'azienda) che non guardano in faccia a pioggia, neve o terremoti. Certo che ritardano a volte o addirittura si bloccano (come fu fatto per sicurezza il giorno del famigerato terremoto), ma anche solo per un minuto di ritardo gli altoparlanti spiegano il motivo e si scusano. Da qui arriva un altro fattore che mi fa amare questa città. Il servizio. Di qualsiasi genere, dal comune al negozio, dall'ospedale alla posta, il cliente viene rispettato. Ciò non toglie che ci siano commessi svogliati o impiegati scorbutici, ma il livello medio è molto alto. Io personalmente non sono mai uscito nervoso da un ufficio postale. La gente in generale va di fretta e silenziosamente per uscire e rientrare dal lavoro, mentre è lenta e casinista quando esce per svago. Il venerdì sera, sabato e domenica la gente è assordante e festosa. I giapponesi, soprattutto a Tokyo, sanno come divertirsi. Poi a Tokyo trovi ogni tipo di giapponese, da Hokkaido a Okinawa. E' culturalmente esplosiva e ci vive il 10% della popolazione».

Invece che idea hai di Barletta, potendoci tornare una volta all'anno?
«Barletta la trovo ogni anno più viva. Vedo che le iniziative culturali crescono e che diventa sempre più attraente anche agli occhi di chi non la conosceva prima di andarci. Per me Barletta è e sarà sempre la mia città d'origine. "Furusato", come dicono in Giappone. Che rimane nel cuore e che ami profondamente e di cui anche ti vergogni tristemente quando vengono fuori storie brutte. Ma è un sentimento normale, che si prova sempre quando c'è un grande amore. Mi piace sentire il nostro dialetto per le strade e vedere i signori anziani ed i ragazzi seduti accanto ai piedi di Eraclio. Mentre non amo il campanilismo cieco, che non ha senso. Il mio sogno sarebbe vedere Barletta meta del turismo culturale, enogastronomico e balneare che si dovrebbe meritare dopo un cammino di impegno che forse non sarà brevissimo. Ma neanche impossibile. E perché no… magari anche il Barletta in Serie A!»

Tra la possibilità di poter rimanere a vivere e lavorare a Tokyo, e la possibilità di poter tornare a vivere e lavorare a Barletta, o comunque in Italia, oggi cosa sceglieresti?
«Domanda da un miliardo di euro! Dipende da troppi fattori. Avendo una famiglia ti rispondo che al momento Tokyo è la scelta migliore. Ma non credo che da single la risposta sarebbe stata differente. Amare un posto e poterci vivere bene sono due cose differenti. Mi terrorizza l'incertezza di molti aspetti economici, lavorativi e di sistema che il nostro Paese (inteso come Italia e quindi anche come Barletta) ancora ha in sé. La sicurezza che riesce a dare il Giappone è difficile da trovare in altri Paesi e se ci si abitua a questo, risulta poi difficile cambiare».

Il tuo lavoro ti permette talvolta di poter venire in Italia. Consideri anche questo un modo per mantenere un legame con le tue origini?
«Certo, quotidianamente telefono in Italia e faccio ricerche sulla cultura enogastronomica italiana. Questo aiuta molto a sentirsi più vicini al Bel Paese oltre a permettermi di andare in Italia a visitare varie aziende in tutto il territorio e partecipare a grandi eventi come il Tuttofood di Milano e il Cibus di Parma. Questo probabilmente mi ha permesso di conoscere varie realtà italiane, forse più di quel che avrei potuto facendo un altro tipo di lavoro. Quando lavoravo come head hunter o come designer questo era impossibile».

Un anno fa, l'11 Marzo 2011, il Giappone veniva scosso da un terremoto di magnitudo 9,0 della scala Richter. Il più forte terremoto avvenuto in questo paese. Qual è il tuo personale ricordo di quel giorno?
«Ero in ufficio alla mia scrivania. Erano quasi le 3 (14:45 per esattezza), non avevo ancora pranzato poiché il venerdì capita di essere più impegnati del solito. La scossa è iniziata come una delle tante. La terra oscillava leggermente. Il problema è che siamo abituati a scosse che terminano dopo 5 secondi o anche meno. Ma dopo molti secondi la scossa continuava e abbiamo capito che non era affatto normale. Le signore che lavoravano come part-time sono fuggite per strada. I miei colleghi erano paralizzati ma chiacchieravano per darsi psicologicamente forza l'un l'altro. Uno addirittura continuava a inserire i dati del magazzino nel computer! Io mi mettevo la giacca, pronto a saltare fuori nel caso fosse stato necessario. Finita finalmente la scossa, sono sceso per andare a pranzare. Intanto treni e metro erano fermi, ma anche questo è una prassi di tutti i post-terremoto. Solitamente riprendono il servizio dopo un paio d'ore, quindi non mi preoccupavo assolutamente. Ero solo in pensiero per la gente del nord di cui si sapeva ancora poco e niente. Arrivato nel parco dove ero solito pranzare, inizia una seconda scossa. Sento dei forti rumori metallici provenienti dall'autostrada sopraelevata che passa sopra il parco. Istintivamente guardo il canale che taglia in due il parco e vedo che l'acqua, profonda un metro e mezzo, si muove come fosse latte in una tazza. Si vedeva il fondo. Là ebbi la certezza che era qualcosa di terribile che stava succedendo lontano da Tokyo. Alle 18 lascio l'ufficio per tornare a casa non prima di aver stampato da internet la mappa per andare a piedi dall'ufficio a casa. 40km. Treni tutti fermi. Taxi tutti già presi. Orde di persone che a passo spedito camminano sui marciapiedi con una sola meta: casa. Anche io inizio spavaldo, ma dopo 20km i dolori iniziano a farsi sentire. Dopo ancora un paio d'ore vedo dei ragazzi che avevano trovato un taxi vuoto. Al che mi lancio e chiedo di dividere la corsa. Così riesco per miracolo a fare gli ultimi 10km in auto. Il giorno dopo non ho camminato nemmeno due passi, troppo dolore. Ricordo ancora la voglia di tutti di parlare con il prossimo, comunicare, sapere un po' per capire che succedeva ed un po' per darsi forza psicologica a vicenda».

A distanza di un anno, che umore si percepisce tra i giapponesi, a incominciare da tua moglie Makiko?
«Come è giusto che sia, tutti vanno avanti con la loro vita. La ferita è ancora aperta ed il Paese penso che sia cambiato, anche se è presto per dirlo. Mi ricordo che tempo fa stavo guardando la tv con mia moglie Makiko. Facendo zapping capitiamo su un canale che trasmetteva un programma comico andato in onda (era una replica) nel gennaio 2011. Il commento di Maki è stato "Quando eravamo ancora stupidi…". Come se il Giappone fosse cresciuto, fosse diventato "intelligente" dopo il terremoto. Poiché ormai il disastro c'è stato, spero che almeno questo sia vero. Imparare dalle proprie sventure è una sfida non da poco. In generale vedo una maggiore sensibilità al risparmio energetico (visto che si temeva la crisi energetica avendo sospeso molte centrali nucleari) e più preoccupazione, sebbene piuttosto superficiale, per il rischio di un grosso terremoto a Tokyo».

Facendo un confronto tra media giapponesi e media stranieri, in particolare italiani, su come hanno trattato la vicenda, che analogie e differenze hai riscontrato?
«I media italiani mi hanno molto deluso in questa occasione. Ho letto tante di quelle assurdità che mi son cadute le braccia. Non si rendono conto che ciò che dicono può avere conseguenze terribili nei lettori. Ad esempio chi aveva familiari in Giappone e gli stessi italiani in Giappone hanno vissuto veri momenti di panico leggendo gli articoli dei media italiani. Ho letto di neve radioattiva, Tokyo senza cibo e corrente, quasi completamente disabitata e altre pazzie simili. D'altro canto i media giapponesi si concentravano molto sulla situazione dei reattori nucleari, ma pochi media hanno inviato reporter alle porte della centrale, quindi le notizie date erano troppo simili a quelle ufficiali. Il che alimenta il sospetto (fondato o meno) che ci fossero news insabbiate. Poi si concentravano molto sul lato umano, ovvero gli sfollati, le famiglie spezzate, ma con modalità più drammatiche che giornalistiche. Quindi io e Makiko abbiamo preferito affidarci alla rete, ai blog di esperti di nucleare e di blogger vicini a Fukushima ed ai media internazionali validi come CNN e BBC. Così, facendo una media tra questi, potevamo avere un quadro un po' più realistico della situazione».

Che opinione ti sei fatto della questione nucleare, seguita al terremoto, che ha interessato tutto il mondo?
«Prima del disastro di Fukushima, ero moderatamente contrario all'energia nucleare. La consideravo una scelta facile, ma perdonabile nella prospettiva di passare ad energie sicure a breve. Dopo la tragedia, mi sono reso conto che non esiste certezza nell'energia nucleare. Finchè la negligenza, o errore o corruzione di qualcuno possono mettere a rischio la vita e l'economia di una nazione intera, non è possibile parlare di sicurezza. Se un pannello solare esplode, al massimo si raccolgono i cocci, se esplode una centrale nucleare il discorso cambia parecchio. Forse è populismo, ma la penso così».

Quale si può dire sia attualmente lo stato della situazione post-terremoto e nucleare?
«Il post terremoto è in corso. Stanno finendo di togliere le macerie che erano una infinità. Interi villaggi spazzati via dallo tsunami, frantumati e depositati sulle coste, navi e macchine sparse per le campagne ed addirittura sui palazzi rimasti in piedi. Molte famiglie vivono in prefabbricati, altre sono riallocate ed altre si sono trasferite dai parenti. Il problema sarà ricostruire. Si sta ripartendo dai centri abitati meno colpiti. Ad esempio a Sendai la vita scorre identica a prima, mentre i villaggi completamente distrutti dubito saranno ricostruiti al 100%. Per quanto riguarda il nucleare, l'emergenza non è affatto finita. La messa in sicurezza inizia adesso che finalmente si sono raffreddati gli impianti. Intanto si cerca di rimuovere i detriti radioattivi e si pensa a come smaltire le tonnellate di acqua contaminata. Non sarà facile e non sarà veloce. La mia opinione è che le zone più vicine alla centrale non saranno mai recuperate, se non dopo cento anni. E' crudele, ma il gioco non vale la candela. Appena le strutture saranno abbastanza sicure si cercherà di tenere la situazione sotto controllo. E' ovviamente solo una mia ipotesi, visto che le direttive ufficiali hanno come obiettivo lo smantellamento e pulizia completa della centrale e delle zone circostanti. Ma anche riuscendoci, chi avrà il coraggio di andarci a vivere?»

In Italia, e in particolare in Puglia, c'è un importante movimento di solidarietà da parte di associazioni, come la barlettana "Cuore", che ha permesso di ospitare nelle famiglie pugliesi i bambini colpiti dal dramma di Chernobyl, possibilità che ora si estenderà anche ai bambini di Fukushima. A Tokyo, in aeroporto, ho visto punti di raccolta fondi, e composizioni di origami (di cui foto in allegato), come simboli di solidarietà. Tu invece hai potuto percepire tra la gente, nella vita quotidiana, un attivismo nella solidarietà?
«Oltre alle classiche raccolte fondi, si cerca di promuovere i prodotti ed i viaggi nel nord-est per aiutare l'economia locale. Tuttavia, pur volendo con tutto il cuore aiutare le zone colpite dal terremoto e tsunami, non si può pretendere che la gente mangi tutta la verdura proveniente da Fukushima. Si potrà fare solo quando il Governo si impegnerà in un progetto di mappatura precisa della zona per individuare dove ci sono i cosiddetti "hot spot", ovvero le zone dove si è accumulato materiale radioattivo. Ci sono zone a 30km dalla centrale che sono sicure, come zone a 80km che hanno radioattività che mette a rischio la salute dei residenti. E' necessario raccogliere e divulgare queste informazioni. Molti amatori lo stanno facendo, ma è necessaria una mappatura che possa contare su delle misurazioni sistematiche fatte con metodo scientifico. Solo così si potrà sostenere il nord-est con attività mirate alla ricrescita e non alle semplici donazioni, che seppur molte, non possono da sole rimettere in carreggiata un territorio così ferito che ancora non ha smesso di sanguinare».

Nel seguente link, del sito del quotidiano "La Repubblica", è possibile inoltre vedere alcune foto scattate da Alessandro nei trasporti pubblici di Tokyo, nei giorni successivi al terremoto.

Edoardo Centonze

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