Cronaca
Dramma sulla Andria-Barletta: dopo la tragedia, tante polemiche
Davanti alla morte di tre giovani è difficile mantenere la giusta razionalità
Barletta - sabato 18 luglio 2020
14.28
Né diavoli in vita, né santi post mortem. Questa potrebbe forse essere la riflessione che come barlettani, come cittadini, come padri o madri di famiglia o come ex adolescenti sarebbe giusto fare all'indomani dell'immane tragedia che ha visto tre giovanissime vite spezzate sull'asfalto della strada statale 170 che collega Barletta ad Andria.
E invece, come purtroppo accade in queste tragiche occasioni, a Barletta non rinunciamo al nostro istintivo essere Franza o Spagna, Santa Maria o San Giacomo, marinari o contadini.
E' accaduto anche stavolta non appena la notizia della tragedia ha cominciato a diffondersi in città. A far discutere, e a dividere l'opinione pubblica barlettana, l'ipotesi che i tre ragazzi al momento del tragico impatto con un furgone viaggiassero in tre su di una bicicletta a pedalata assistita. Ciò ha immediatamente scatenato un acceso dibattito che vede da un lato quelli che in un certo senso preconizzavano quanto accaduto sulla SS170, vista la diffusa indisciplina e maleducazione di tanti e-bikers, e dall'altra quelli del "non giudicate e abbiate rispetto per tre vite spezzate e per il dolore dei familiari", in una quanto mai comoda reminiscenza di morale cattolica e consacrazione della morte alla quale difficilmente noi italiani sappiamo sottrarci. Perché, bando all'ipocrisia, non si fosse verificato il tragico incidente della Andria-Barletta quali e quanti improperi attirerebbero su di loro tre ragazzi a bordo di una bici elettrica lungo una strada extraurbana a scorrimento veloce, naturalmente sempre se tale ipotesi venisse confermata?
Ecco perché il "né diavoli in vita né santi post-mortem" ci pare un modo se non giusto quanto meno più equilibrato di affrontare come comunità, immani tragedie come questa. Anche se ci rendiamo perfettamente conto che dinanzi alla morte di tre ragazzi nel fiore degli anni risulta piuttosto difficile mantenere la giusta razionalità senza abbandonarsi a sentimenti forti.
Sul banco degli imputati, oggi più che mai, le famigerate e-bike o bici elettriche e soprattutto il modo quanto meno avventuroso con il quale tanti conducenti ne fanno uso. Ed è proprio questo il punto: per quanto orrende possano essere dal punto di vista estetico, siamo proprio sicuri che siano le e-bike il problema e non una legislazione in materia che praticamente fa acqua da tutte le parti? E poi, l'angoscia e il senso di smarrimento che Barletta sta vivendo in queste ore non è forse la stessa che si viveva negli anni Ottanta, quando a decine si contavano gli incidenti, non di rado mortali, che vedevano protagonisti i ciclomotori? Anche allora tante famiglie piansero i loro figli prima che lo Stato, con colpevolissimo ritardo, imponesse nell'ordine uso del casco, targa, assicurazione e patentino.
Anche oggi, nonostante le centinaia di segnalazioni via social da parte di cittadini esasperati dalla strafottenza di tanti e-bikers, lo Stato fa poco o nulla per contrastare il fenomeno della e-bike selvaggia, così come l'altro ieri fingeva di non vedere ragazzi impennare i motorini o addirittura impegnati in gare clandestine. Perché, ieri come oggi, il legislatore non interviene o interviene in ritardo? Negligenza? Menefreghismo? Oppure eccessiva cautela verso i produttori di e-bike di oggi come quelli di ciclomotori ieri?
Ma vacatio legis a parte, e-bike o ciclomotore che sia, a fare la differenza era e resta l'elemento umano. Anzi, a guardar meglio, la questione e-bike è solo una delle tante conseguenze negative di un modo di vivere di tanti ragazzi che con tutta evidenza ha raggiunto un punto di non ritorno. Un modo di vivere fatto di consumismo sfrenato che, è vero, c'era anche prima, ma almeno era bilanciato dal fatto che una volta a 15 anni in tanti d'estate iniziavano ad imparare un mestiere. Un modo di vivere fatto spesso di totale mancanza di rispetto delle regole, mentre una volta famiglia, scuola e servizio militare erano forche caudine dalle quali era molto difficile uscire con certi grilli per la testa.
Un modo di vivere nel quale in sostanza – complice anche la difficilissima congiuntura socio-economica nella quale siamo impelagati da oltre un decennio – si è quasi completamente persa quella propensione al sacrificio e alla voglia di emergere, come si evince dal numero sempre maggiore di giovani e giovanissimi attratti dal "guadagno facile".
Stia tranquillo il lettore, questo non è, e non vuole essere un atto d'accusa verso i tre sfortunati ragazzi morti l'altro giorno. Non amiamo giocare al "Pubblico Ministero" (come ahinoi spesso in voga nella nostra categoria) e soprattutto non ci permetteremmo mai di giudicare le vite di tre nostri figli volati tragicamente via una mattina di luglio. Anche perché, per condivisibile o meno che sia, ognuno di noi ha una sua storia. Una storia figlia di gioie, dolori, successi, fallimenti. Ciascuno di noi non è che un atomo di una società malata che troppo spesso ci induce a commettere errori. Tanti, tanti errori ai quali siamo spinti dall'esigenza di farci accettare dal gruppo, di seguire la moda del momento, di volere fare i "fighi" a tutti i costi. In tutto questo lasciati sempre più soli da una classe dirigente che da qualche tempo parla ai più giovani più di vacui diritti che di sacrosanti doveri. Il risultato di tutto questo lo abbiamo ben descritto poc'anzi.
Anche per questo, nell'attesa che le autorità facciano piena luce sulla dinamica della "strage della Andria-Barletta", non ci sentiamo di assolvere né tanto meno di condannare le vittime. Ma una decisa sterzata – anche se non soprattutto a livello legislativo - a questo preoccupante stato di cose va data ponendo in primis fine a questo deleterio lassismo e a questa anarchia tollerata nel nome del "siamo stati giovani anche noi". E' l'unico modo per far si che dopo tragedie come queste per lo meno ci si possa appigliare alla magra, magrissima consolazione del poter dire che Paki, Gianni e Michele non sono morti invano. E' il minimo che si possa fare per onorare la loro memoria. Il resto sono solo frasi di circostanza che altro non farebbero se non acuire ancora di più il dolore di tre famiglie distrutte.
E invece, come purtroppo accade in queste tragiche occasioni, a Barletta non rinunciamo al nostro istintivo essere Franza o Spagna, Santa Maria o San Giacomo, marinari o contadini.
E' accaduto anche stavolta non appena la notizia della tragedia ha cominciato a diffondersi in città. A far discutere, e a dividere l'opinione pubblica barlettana, l'ipotesi che i tre ragazzi al momento del tragico impatto con un furgone viaggiassero in tre su di una bicicletta a pedalata assistita. Ciò ha immediatamente scatenato un acceso dibattito che vede da un lato quelli che in un certo senso preconizzavano quanto accaduto sulla SS170, vista la diffusa indisciplina e maleducazione di tanti e-bikers, e dall'altra quelli del "non giudicate e abbiate rispetto per tre vite spezzate e per il dolore dei familiari", in una quanto mai comoda reminiscenza di morale cattolica e consacrazione della morte alla quale difficilmente noi italiani sappiamo sottrarci. Perché, bando all'ipocrisia, non si fosse verificato il tragico incidente della Andria-Barletta quali e quanti improperi attirerebbero su di loro tre ragazzi a bordo di una bici elettrica lungo una strada extraurbana a scorrimento veloce, naturalmente sempre se tale ipotesi venisse confermata?
Ecco perché il "né diavoli in vita né santi post-mortem" ci pare un modo se non giusto quanto meno più equilibrato di affrontare come comunità, immani tragedie come questa. Anche se ci rendiamo perfettamente conto che dinanzi alla morte di tre ragazzi nel fiore degli anni risulta piuttosto difficile mantenere la giusta razionalità senza abbandonarsi a sentimenti forti.
Sul banco degli imputati, oggi più che mai, le famigerate e-bike o bici elettriche e soprattutto il modo quanto meno avventuroso con il quale tanti conducenti ne fanno uso. Ed è proprio questo il punto: per quanto orrende possano essere dal punto di vista estetico, siamo proprio sicuri che siano le e-bike il problema e non una legislazione in materia che praticamente fa acqua da tutte le parti? E poi, l'angoscia e il senso di smarrimento che Barletta sta vivendo in queste ore non è forse la stessa che si viveva negli anni Ottanta, quando a decine si contavano gli incidenti, non di rado mortali, che vedevano protagonisti i ciclomotori? Anche allora tante famiglie piansero i loro figli prima che lo Stato, con colpevolissimo ritardo, imponesse nell'ordine uso del casco, targa, assicurazione e patentino.
Anche oggi, nonostante le centinaia di segnalazioni via social da parte di cittadini esasperati dalla strafottenza di tanti e-bikers, lo Stato fa poco o nulla per contrastare il fenomeno della e-bike selvaggia, così come l'altro ieri fingeva di non vedere ragazzi impennare i motorini o addirittura impegnati in gare clandestine. Perché, ieri come oggi, il legislatore non interviene o interviene in ritardo? Negligenza? Menefreghismo? Oppure eccessiva cautela verso i produttori di e-bike di oggi come quelli di ciclomotori ieri?
Ma vacatio legis a parte, e-bike o ciclomotore che sia, a fare la differenza era e resta l'elemento umano. Anzi, a guardar meglio, la questione e-bike è solo una delle tante conseguenze negative di un modo di vivere di tanti ragazzi che con tutta evidenza ha raggiunto un punto di non ritorno. Un modo di vivere fatto di consumismo sfrenato che, è vero, c'era anche prima, ma almeno era bilanciato dal fatto che una volta a 15 anni in tanti d'estate iniziavano ad imparare un mestiere. Un modo di vivere fatto spesso di totale mancanza di rispetto delle regole, mentre una volta famiglia, scuola e servizio militare erano forche caudine dalle quali era molto difficile uscire con certi grilli per la testa.
Un modo di vivere nel quale in sostanza – complice anche la difficilissima congiuntura socio-economica nella quale siamo impelagati da oltre un decennio – si è quasi completamente persa quella propensione al sacrificio e alla voglia di emergere, come si evince dal numero sempre maggiore di giovani e giovanissimi attratti dal "guadagno facile".
Stia tranquillo il lettore, questo non è, e non vuole essere un atto d'accusa verso i tre sfortunati ragazzi morti l'altro giorno. Non amiamo giocare al "Pubblico Ministero" (come ahinoi spesso in voga nella nostra categoria) e soprattutto non ci permetteremmo mai di giudicare le vite di tre nostri figli volati tragicamente via una mattina di luglio. Anche perché, per condivisibile o meno che sia, ognuno di noi ha una sua storia. Una storia figlia di gioie, dolori, successi, fallimenti. Ciascuno di noi non è che un atomo di una società malata che troppo spesso ci induce a commettere errori. Tanti, tanti errori ai quali siamo spinti dall'esigenza di farci accettare dal gruppo, di seguire la moda del momento, di volere fare i "fighi" a tutti i costi. In tutto questo lasciati sempre più soli da una classe dirigente che da qualche tempo parla ai più giovani più di vacui diritti che di sacrosanti doveri. Il risultato di tutto questo lo abbiamo ben descritto poc'anzi.
Anche per questo, nell'attesa che le autorità facciano piena luce sulla dinamica della "strage della Andria-Barletta", non ci sentiamo di assolvere né tanto meno di condannare le vittime. Ma una decisa sterzata – anche se non soprattutto a livello legislativo - a questo preoccupante stato di cose va data ponendo in primis fine a questo deleterio lassismo e a questa anarchia tollerata nel nome del "siamo stati giovani anche noi". E' l'unico modo per far si che dopo tragedie come queste per lo meno ci si possa appigliare alla magra, magrissima consolazione del poter dire che Paki, Gianni e Michele non sono morti invano. E' il minimo che si possa fare per onorare la loro memoria. Il resto sono solo frasi di circostanza che altro non farebbero se non acuire ancora di più il dolore di tre famiglie distrutte.