La democrazia, il pubblico e il potere a Barletta

A dieci giorni dal primo consiglio comunale e dalle dimissioni di Nicola Maffei. La politica è in guerra civile

lunedì 11 luglio 2011
A cura di Alessandro Porcelluzzi
La democrazia non può essere (solo) la legge dei numeri. Una maggioranza, anche la più larga e ampia possibile, dovrebbe trovare un limite nel salvaguardare i diritti, e ancora prima l'esistenza, della minoranza. Come si distingue allora una vera democrazia? Ad esempio nell'esercizio più trasparente possibile del potere. Bobbio definì la democrazia "potere in pubblico".

A rigore la crisi politica in corso a Barletta non è quindi democratica. Nel senso che non si svolge, nelle sue radici e nei suoi sviluppi, in pubblico. Il ruolo della stampa dovrebbe essere in primo luogo cercare di allargare il più possibile la parte della politica che si svolge alla luce del sole, fuori dalle stanze buie e fumose. Ciò che è successo dopo le dimissioni di Maffei è in qualche modo legato a questo aspetto della politica. Grazie all'intervento della stampa, e della nostra testata in particolare, molte pentole sono state scoperchiate. Da queste colonne abbiamo lanciato un petardo. Ma la deflagrazione è stata quella di una bomba.

I sei consiglieri che in assemblea hanno proposto il nome di Lasala scrivono "Lasala non era il nome che ci si aspettava o quello a cui era stata promessa la presidenza prima delle elezioni". Dunque esisteva un diritto di prelazione sulla presidenza del consiglio. Ci si chiede allora per chi il sindaco Maffei avesse immaginato quel ruolo, e soprattutto in virtù di quale principio.

Il consigliere regionale Mennea (che ha convocato una conferenza stampa per il 14 luglio, cioè a una manciata di giorni dalla data ultima per ritirare le dimissioni…), anch'egli chiamato in causa da un nostro precedente articolo, in un suo intervento parla di "un comitato di gestione…un gruppo ristretto che non intende amministrare, ma vuole maneggiare". E rimprovera i dirigenti regionali e nazionali intervenuti. Soprattutto rimprovera Emiliano, che in un suo intervento è arrivato a minacciare "provvedimenti disciplinari" (siamo tornati alle espulsioni e alle radiazioni, signori?) contro i 6 consiglieri. Perché secondo Mennea ciò significa perdere "pure l'ennesima occasione di dare una bella rinfrescata al Pd e di chiudere le porte alle lobby che lui stesso [Emiliano, ndr] ha sempre detto di voler combattere". Mennea non parla degli alleati del centrosinistra. O almeno non lo fa esplicitamente. I suoi obiettivi polemici sono dunque tutti interni al Pd: sicuramente i quattro consiglieri pro-Delvecchio, il sindaco e i tre assessori del Pd, immaginiamo. Chi altri ancora?

Gli altri partiti della coalizione si sono attestati su una linea pressoché unanime di solidarietà al sindaco da una parte e di presa di distanza dal Pd dall'altra. Ma nessuno degli attori in campo ci ha finora permesso di comprendere quale idea di città, di comunità abbia in mente. Nessuno ha chiarito se le divisioni siano legate a divergenze programmatiche. O se invece l'abbaiare furibondo degli uni contro gli altri, i toni da guerra civile o da golpe a bassa intensità non siano altro che un modo per segnare il territorio e alzare la posta per conservare il (proprio) consenso a questa amministrazione.

Come recita Lord Northcliffe: "È la cronaca che cattura l'attenzione dei lettori, ma sono gli approfondimenti che li tengono avvinti".