Fabio Troiano e Donatella Finocchiaro portano a teatro storie di immigrazioni e speranza

"Lampedusa" al Teatro Curci, alla scoperta di verità in barba a falsi miti e cliché da talk

martedì 12 dicembre 2017
A cura di Rossella Vitrani
Grande appuntamento, quello di dicembre al teatro Curci: nel secondo week end del mese è andato in scena "Lampedusa", di Anders Lustgarten traduzione di Elena Battista con Donatella Finocchiaro e Fabio Troiano, nell'adattamento e regia di Gian Piero Borgia. Il titolo chiaramente allusivo alla situazione che si consuma ogni giorno nelle impervie acque del mare nostrum, introduce lo spettatore in un tema quanto mai attuale e dal forte impegno civile, ad uso e abuso di partiti e slogan politici: l'immigrazione.

Sullo sfondo, le lampadine vestono una scenografia spoglia quanto essenziale: si accendono e si spengono ad intermittenza come le vite di chi gioca la propria partita: c'è chi ce la fa e chi no. Protagonista, in quello che si paleserà alla platea come un teatro di parola, un pescatore. "Dal mare sei venuto e al mare tornerai" riecheggia nell'aria salata dell'isola di Lampedusa. L'isola descritta è amara e bella al contempo, rigogliosa nei suoi paesaggi quanto nelle anime. Anime di migranti impavidi e disperati, speranzosi e terrorizzati da quel mostro che alla prima tempesta potrà inghiottirli tra le sue onde o portarli in salvo dal luogo natio, a suo piacimento.

Un monologo intenso sin dalle prime battute, quello del pescatore siciliano - nella magistrale interpretazione di Fabio Troiano -, impegnato a recuperare i corpi dei profughi dispersi in mare. A dialogare con lui, senza neppur rivolgergli una sola parola, Donatella Finocchiaro, nei panni di una donna immigrata di seconda generazione, una marocchino-italiana che riscuote crediti inevasi per una società di prestiti. Non di immediata lettura il nesso tra i due monologhi, i racconti si intrecciano seppur nella propria autonomia a mostrare l'intenso percorso di trasformazione dei protagonisti agli occhi dell'immigrato: da intransigente esattore a familiare commensale attorno ad un piatto portoghese, lei, da estraneo isolano ad amico in grado di mettere in salvo l'amata, anch'essa scampata alla traversata, lui.

Quello dei due personaggi, è un percorso all'interno di se stessi, alla scoperta di verità in barba a falsi miti e cliché da talk televisivi. Lo "straniero" che ruba il lavoro, che sceglie sponde già in crisi economica, che arriva senza sapere la lingua, cede spazio all'uomo, alle ansie di chi attende la propria amata pregando Dio, Allah o chi per loro, affinché tra le vittime di quel mare infausto non ci sia un nome conosciuto. Il pescatore siciliano, dapprima quasi infastidito dalla presenza del nuovo arrivato, si ritrova coinvolto nella disperata ricerca del barcone sovraffollato, rovesciato in mare a poche miglia dalla costa, colpito dalle burrascose onde salate. Attende l'arrivo della sua donna, l'amore della sua vita.

In platea qualcuno mormora temendo il peggio ma ecco che tra quelle "macchioline nere esanimi" che battono contro la barca, si scorge il volto della donna, spaventata ma viva. Il lieto fine è salvo, i due si ricongiungono in un tenero abbraccio (raccontato dal quasi commosso accento siciliano). Un abbraccio suggella il messaggio finale: la sola cosa che accomuna i protagonisti è allora la speranza. Quella che Pandora riuscì a imprigionare nel proprio vaso chiudendolo per tempo, quella che in un mondo contraddittorio quale l'odierno sembra perduta, scomparsa.

Dov'è? Non negli occhi degli abitanti della siciliana Lampedusa, né tanto meno negli allarmisti dati Istat dei quotidiani. Lo spiega bene Troiano, la speranza è quella che non possediamo più, non la ricordiamo nemmeno eppure c'è in quegli occhioni neri pronti a sfidare l'ignoto. Ci stupisce ma ci suscita invidia. Il commento sotteso è chiaro: il nostro paese ce la sta mettendo tutta ma lontana è la svolta politica sul caldo tema dell'immigrazione. Come se il razzismo fosse debellato e con il rammarico che il fenomeno sia tutt'altro che restringibile in categorie di razza, cultura, religione.

Lo spettacolo parla all'uomo, alla sua coscienza scevra da approssimazioni su numeri e dati. Quando certi temi affondano sulla scena teatrale, occorre interrogare la propria coscienza, alzare il velo dell'ipocrisia e dei perbenismi, centrare il cuore del problema: siamo chiamati ad un'emergenza sociale e prima che il tutto si esasperi occorre agire. Il sipario si cala, ritornare alla realtà dopo questo "tuffo" si può ma si spera non con la superficialità di sempre. Che sia questo il testamento dell'autore, che sia questo negli intenti del regista poco importa, la realtà scenica ha sottratto il "velo di Maya": «tutto quello che toccano diventa tempo. Diventa azione. Attesa e speranza. Anche il loro morire è qualcosa».