Delitto Scopece, dopo sette anni non ci sono colpevoli

Inammissibile il ricorso della Procura Generale sull’assoluzione degli imputati

mercoledì 16 luglio 2014 0.22
La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura Generale presso la Corte d'Appello di Bari che aveva impugnato l'assoluzione degli imputati coinvolti a vario titolo nell'omicidio di Marisa Scopece. La ventitreenne foggiana fu uccisa a Barletta ed il suo cadavere rinvenuto da un contadino l'11 settembre 2007 in un tratturo prospiciente la Madonna dello Sterpeto. La morte, probabilmente, risaliva al 6 settembre. Resta, dunque, senza colpevoli l'efferato delitto per cui la Corte d'Assise di Trani, il 29 Aprile 2011, condannò a 27 anni di reclusione il trentanovenne Emanuele Modesto e a 30 anni di reclusione i cugini Raimondo Carbone e Giuseppe Gallone, tutti di Trinitapoli, per le accuse di omicidio premeditato, distruzione di cadavere, rapina ed illecita detenzione di una pistola. I tre, però, il 17 Maggio 2012, furono completamente assolti in secondo grado "per non aver commesso il fatto" dalla Corte d'Assise d'Appello di Bari. La loro assoluzione determinò pure l'assoluzione dei cerignolani Antonio Reddavide e Geremia Strafezza accusati d'aver aiutato i presunti assassini tacendo o rendendo false informazioni sugli ultimi spostamenti della Scopece: in primo grado erano stati rispettivamente condannati ad 8 mesi ed ad 1 anno e 8 mesi di reclusione.

Marisa Scopece fu uccisa a colpi di pistola, poi il cadavere venne dato alle fiamme rimanendo esposto agli agenti atmosferici e agli animali randagi. Chi la uccise la rapinò di ventimila euro, di due telefonini e della sua Opel Tigra. Il cadavere rimase senza nome sino al 19 settembre quando, da una foto diffusa dai mass media, il responsabile della Cooperativa "Il Sipario" di Gravina in Puglia (dove Marisa era stata ospite) riconobbe il "cuore alato" tatuato sul fondoschiena. La storia di Marisa era segnata di disagi familiari, droga e prostituzione. Chi l'ha ammazzata, forse, voleva il suo bottino di ventimila euro che la giovane portava sempre con sé. Nella sentenza d'assoluzione la Corte di Bari pose un forte accento sulle lacune investigative. Su tutte l'impossibilità di comparare il DNA della vittima con quella dei presunti assassini.

Gli imputati prestarono consenso al prelievo del loro DNA per consentire la comparazione con quello che si sarebbe dovuto estrarre dagli spermatozoi rinvenuti nella vagina di Marisa e fissati su alcuni tamponi dal medico legale. Ma l'esame non potè più effettuarsi "perché i tamponi consegnati dal consulente autoptico agli inquirenti (l'estrazione del DNA, infatti, avrebbe dovuto esser eseguita dalla Polizia Scientifica di Roma) erano andati maldestramente perduti. Il tentativo di rimediare – scrivevano i giudici della Corte d'Assise d'Appello - attraverso la ricerca e l'impiego di altro materiale biologico all'epoca prelevato non aveva dato successo, essendo risultato inutilizzabile ai fini dell'individuazione del DNA". Con l'inammissibilità dell'impugnazione cala, dunque, definitivamente il sipario sugli imputati. E forse per sempre anche sull'efferato delitto rimasto senza colpevoli.