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Il pessimismo? Parola vuota per “Il Giovane favoloso”

Con il permesso del XIX secolo, Leopardi visse morendo

Un capo-volto è l'icona della locandina di un mancato capolavoro. Il fine è la fine, gli adulti vivono schiavi di un'idea di progresso e di salvezza ma non c'è salvezza se non per per chi resiste con fanciullezza al corso del tempo. La coscienza è infelice perché è la sua natura ad imporglielo e- se per Hegel era possibile un'evoluzione-per Giacomo non c'è altra via di fuga oltre l'immaginazione, oltre il sentimento e lo studio. Studio matto e disperatissimo anche quello fatto da Mario Martone sulla biografia del Giovane favoloso, sulla splendida bruttura dei suoi pensieri, delle sue opere scomode e del suo capo costantemente chino. Senza alcuna spettacolarizzazione, alcuna pretesa di elevare Leopardi a un grande dell'Ottocento, Martone ci dipinge un Giacomo paranoico, ossessionato dal suo stesso sguardo, un corpo gracile e deforme pronto a scattare solo quando si tratta di accogliere un Pietro Giordani o quando è il tempo di fuggire da una casa troppo soffocantemente cattolica.

Monaldo e Adelaide, due genitori, due bastoni tra le ruote di un cocchio troppo veloce e rivoluzionario per il suo tempo. Pietro Giordani, la biga alata che muove ragione e passione verso un orizzonte meno nitido, ma più felice. Perché la verità sta nel dubbio e solo chi dubita resiste al tedio progressista che è la vita. Il Leopardi sullo schermo è un Elio Germano totalmente annientato e donato a quell'infinito recitato da Oscar. Con gli occhi mira, con il collo scruta, con la bocca socchiusa naufraga nel mare dolce della fantasia. Lo zelo lo desta, lo Zibaldone lo assorbe, le Operette morali lo assillano perché l'ambiente romano, troppo liberale per la crudità dei suoi pensieri, le respinge. E quando Giacomo inveisce contro la Natura, impersonificata da sua madre, le grida del suo cuore sembrano uscire dalla sua gobba. Struggenti anche gli espedienti fantasiosi utilizzati da Martone per illustrare un poeta allucinato, ribelle, sfuggente alla vita e a se stesso; l'incubo, la schizofrenia e la frustrazione sono in lotta continua con la letteratura classica, la contemplazione e l'arte, il fronte su cui Leopardi sa meglio difendersi. La meschinità della vita sociale lo attacca, ma il poeta non accetta che le sue idee siano giustificate-a giudizio altrui- dal suo aspetto. Una combinazione troppo crudele!

Il Leopardi italiano, come lo Schopenhauer tedesco, il Baudelaire francese e il Lord Byron inglese; tutte menti lucide e allucinate, alle quali non è stato permesso andare contro il corso corrente. Immissari in piena che non hanno trovato un letto in cui introdursi, nel fiume di un secolo troppo puritano e illuso. La demistificazione dell'ottimismo, la dissolutezza della quiete dopo la tempesta, la disobbedienza di un passero solitario, la ricerca disperata dell'islandese, la solitudine del pastore errante sono condizioni imprescindibili per un uomo incapace di mistificare, ma abile a rimanere eretto sulle gambe deboli della sua esistenza.

La misantropia e l'escapismo dell'età giovanile, attraverso le inquadrature che immortalano un poeta di tergo che "nel pensier si finge", mutano in solidarietà e permanenza. Rimane a Napoli, ai piedi del Vesuvio, in compagnia di una ginestra dalla cui luminosità può trarre la guida verso una lieta fine. Ma Martone preferisce non spegnerlo; la vitalità del pensiero leopardiano è stata più forte della suo gaudio mortale. L'affanno ha partorito forse il più grande dei dispiaceri: quello di essere ricordato da una didattica sistematica (e forse poco etica) come il pioniere del pessimismo e il motore spento della depressione. Forse, in fondo, Leopardi non si è mai capito e Martone ha voluto lanciarci una sfida di comprendonio.
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