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"Anni felici": il peso del vuoto

Una tragedia all’italiana

Legge sul divorzio, costumi imborghesiti, irredentismi identitari, la cinepresa, il mare di Fregene e il Duomo cosmopolita: sono gli anni '70, gli anni dell'industria, gli anni del primo giornalismo critico e dell'arte di trasgredire, gli anni della presa di coscienza, gli anni felici. Felici per il regista Daniele Luchetti, che ha voluto portare su nastro la sua infanzia, e trasportarla nella voce narrante, la guida in linea che funge da sinossi alla vicenda raccontata; apparentemente una storia preimpostata ma che di rigido non ha nulla. Neanche i ruoli sono fissi: la famiglia modello (due genitori e due figli) subisce deflagrazioni, implosioni, evoluzioni. Da moglie ossessionata, ossessiva e ossessionante, Micaela Ramazzotti diventa la donna omosessuale che si interfaccia con la libertà di espressione; Kim Rossi Stuart non è più l'artista fallito che si impone l'anticonformismo, ma trova nell'allontanamento della moglie il suo successo professionale; i due figli regalano dinamismo e comicità a una tragedia italiana, che comincia bene ma finisce nell'indefinitezza.

Prima lo stalking da parte di lei per il lavoro del marito e l'insofferenza di lui, poi la gelosia da abbandono di lui dopo la svolta femminista di lei e il suo viaggio in Francia; infine il disgusto coniugale, il rifiuto, la squallida sincerità di dirsi tutto in faccia solo quando tutto è già successo. Tradimenti come grattatine di naso per lui, adulterio saffico e sentimentale per lei, tutto al cospetto dei loro figli, ora perplessi, ora indignati. Il più piccolo è preso da frequenti conati di vomito, il maggiore ha in serbo una vendetta più elegante, il suicidio. La mossa che farà disgraziatamente unire ancora i due coniugi; un rapporto inconsistente, eppure così denso di passione e incoscienza, dove l'unico chiarimento razionale è l'istintuale sesso. Un figlio che intercetta tutto, e dal cui punto di vista il regista ci fa vedere il corso degli eventi; è la prospettiva filiare a tenere salda tutta questa fluidità. Un punto di vista ribassato, perché si sa, per vedere meglio è necessario retrocedere; la messa a fuoco è dettata dalla lontananza, esattamente come accade ai due personaggi principali, a marito e moglie.

La presa di coscienza allora diventa quasi la conseguenza di una felicità che non è più; è l'effetto straniamento interno alla persona che fa della stessa persona una persona che è stata felice, ma non ha potuto saperlo in quel momento. Il tempo diventa il fiume in piena, la felicità la sua foce, le persone il suo letto. "Erano anni felici, peccato che nessuno di noi se ne fosse accorto", la constatazione finale del narratore-figlio che si rende conto di quanto non si è stati presenti a se stessi; è l'assenza a stimolare la rottura da quello che ci si era imposti, è il non più a generare quello che sarà.
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