Sarò vostra figlia se non mi fate mangiare le zucchine-intervista a Tommy Dibari
Sarò vostra figlia se non mi fate mangiare le zucchine-intervista a Tommy Dibari
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Tommy Dibari, la vita e la messa al mondo del suo ultimo libro

Esce oggi “Sarò vostra figlia se non mi fate mangiare la zucchine”

E' arrivato al suo numero perfetto Tommy Dibari, lo scrittore barlettano che firma la sua terza opera, questa volta da solo. E' l'opera di una vita mancata, di una biologia arida, di un'alternativa fertile. Salvo poi scoprire che non si trattava di un'alternativa, ma di un dono che era lì e che bastava "la queste" medievale, bastava voltarsi verso la ricerca e dare le spalle alla scienza per arrivare a quel dono della natura. Oggi esce "Sarò vostra figlia se non mi fate mangiare le zucchine" e il suo padre-autore risponde, non senza commozione, alle nostre domande.

Sarò vostra figlia se non mi fate mangiare le zucchine ha il sapore di una dolce minaccia…perché questo titolo?
«Come per tutte le cose che devo raccontare, mi piace partire da un taglio ironico, così da spiazzare il pubblico proprio mentre si sta divertendo. Lì, la soglia d'attenzione è altissima e il messaggio arriva prima. Questa frase fu pronunciata da mia figlia non appena ci conoscemmo e disse così: sarò vostra figlia se mi comprate un cane, se non mi date le botte e se non mi fate mangiare le zucchine».

L'adozione è un'esperienza intima che, inevitabilmente va ad incrociarsi con questioni di ordine giuridico-politico, scientifico e psicologico. Come tu e tua moglie avete vissuto questo incrocio?
«Intanto ci devi credere e devi stabilire che il 51% di te dentro ha paura; ma basta pensare che la paura è solo un muro che ergiamo in noi, a cui deleghiamo il compito di ingessarci. Ci sono due modi di reagire: uno è farti bloccare, l'altro è di accenderti. E proprio come la canzone degli U2, esiste one love, one blood, one life: esiste un solo amore, scorre un solo sangue che dona la vita e io e mia moglie abbiamo investito tutto in questa unicità. I corridoi dei tribunali sono stati la placenta che mia moglie non ha avuto; le scartoffie il liquido amniotico; i tempi d'attesa le lenzuola degli ospedali che non ho visto. Però, in comune con la gravidanza biologica, l'esperienza adottante ha la nascita. E' una nascita».

Quali suggerimenti senti di dare alle coppie che, come la vostra, fa parte di quel range d'infertilità inspiegabile?
«Bè, molte volte diamo definizioni a ciò che non possiamo accettare, a quello che non riusciamo ad esplorare e congeliamo così ogni possibilità di cambiamento. Ci sono mille fattori inspiegabili perché la medicina non ha la risposta a tutto. A questo mistero, noi abbiamo deciso di darci completamente, lasciandolo tale e guardando la vita da altri punti di vista. Il consiglio che do è di non considerarla una battaglia da vincere, ma un sentiero. Un sentiero che non porta placidamente alla meta, ma che prevede percorsi irti, faticosi, che impongono alla tua volontà di manifestarsi in tutta la sua potenza, per salvare una vita senza generarla forzatamente da una provetta. Tra i miei appunti rileggo ancora che "ogni uomo ha il dovere di seguire la strada che passa per il suo villaggio"».
Sarò vostra figlia se non mi fate mangiare le zucchine-intervista a Tommy Dibari
A febbraio sei stato in Senato, quale aria politica hai respirato riguardo a questo tema?
«E' stato bellissimo perché avevo di fronte a me le più grandi associazioni che si occupano di infanzia e ho percepito il loro entusiasmo di lavorare. E l'entusiasmo non è un sentimento da banalizzare: significa avere Dio dentro. E quando mi sono accorto della luce umana che irradiava la sala del Senato, mi sono sentito tra persone che potevano e dovevano comprendere la mia richiesta. Quella di parlare della gravidanza adottiva e della magia che questa esperienza porta nella mente di chi la concepisce e nel mondo reale di tutti i bambini che vivono da figli in potenza. Noi, questa potenza, dobbiamo trasformarla in atto».

In quell'occasione hai parlato della necessità di promuovere la cultura dell'adozione. In Italia, si può parlare di una resa preventiva nell'intraprendere questo percorso?
«Sì, è verissimo quello che dici. Ci sono tanti pregiudizi a riguardo e dobbiamo liberarcene, perché figli della cultura del chiacchiericcio. Bisogna innanzitutto crederci e pensare che ciò che desideri si trova in mezzo alle cose che accadono o dall'altra parte del mondo; basta ascoltarsi. E poi ignorare il pettegolezzo maligno di chi pensa che il figlio te lo compri o di chi crede che se riesci ad ottenere risultati dal Tribunale nazionale è perché sei raccomandato. Semplicemente, devi avere i requisiti che possano garantire al figlio una vita dignitosa ed è giusto che il percorso sia alla scrupolosa attenzione dei servizi sociali. Questo bisogna cambiare: la credenza che i genitori adottanti siano sotto controllo o, peggio, clienti di chissà quale fenomeno».

Raccontaci il primo giorno di Marianunzia a casa.
«Lei era molto più serena di noi, perché quando è arrivata aveva cinque anni e mezzo e sentiva che si era avverato quello che lei sperava, avere due genitori che la amassero. Il feeling è scattato subito con mia moglie Doriana, perché Marianunzia aveva fame di mamma, perché quei bambini hanno una fame divorante di mamma. Poi è stata una conquista millimetrica, come nel film "Ogni maledetta domenica", ogni giorno devi sgomitare e conquistarti il suo amore di figlia e la tua natura di padre. All'inizio non ci credevo, ma una notte mi son svegliato, ho guardato mia figlia e mia moglie che dormivano, poi ho guardato i miei occhi sgranati e ho detto "E' fatta! E sarà così per sempre"».

Ognuno di noi ha un'immagine di mondo. Quanto è stata importante quella di tua figlia per partorire questo libro?
«E' stata importante a tal punto che io mi sono dimenticato di me e avevo bisogno di guardare lei per ritrovarmi. Il suo mondo era diventato il mio. Ho voluto perdermi nel suo mondo e dopo questo smarrimento, è stato un lento allunaggio. Poi pian piano abbiamo trovato il nostro equilibrio e ora siamo una famiglia. Non ci sentiamo né speciali, né straordinari. Eppure, molte volte leggo negli occhi di chi ci guarda lo stupore e la meraviglia. Ma siamo la prova vivente che si può fare e che i frutti non sono solo quelli che cascano dall'albero, ma anche quelli che raccogli tu, per i quali ti pieghi sulle tue ginocchia e che poi mordi con tanta felicità».

Le zucchine sono ancora invise nella vostra cucina?
«Sì, perché lei all'inizio aveva tutta una serie di tabù legati al cibo. Ma lo faceva solo per metterci alla prova, perché molte volte i figli testano i genitori, vogliono verificare, ti provocano. Molte volte sembra che si oppongano a te, ma lo fanno solo per sentirsi dire il contrario, per avere la conferma che tu sia in sintonia con loro».

Hai donato alla Biblioteca comunale "S.Loffredo" la medaglia del Senato che hai ricevuto per l'Oscar al doppiaggio: Continua ad esserci Barletta nei tuoi lavori?
«In questo libro più che mai, perché estremamente intimo e autobiografico. Il mio rapporto con Barletta è di amore passionale, specie con i suoi luoghi. Il trabucco, la litoranea di Ponente, la Chiesa di San Giacomo, il quartiere Barberini, le scuole De Nittis e San Domenico Savio, la 16Bis e la stazione, corridoi dei nostri viaggi da una clinica all'altra. In ogni angolo di pagina si respira Barletta ed è qui che immagino le passeggiate di mia figlia da grande. "Mi piace pensarti mentre passeggi a passo di piuma per Barletta, la città tra cielo e inferno e tu che ci passi in mezzo. Mi piace pensarti anche d'estate, mentre percorri il braccio del porto, su e giù tra lanterna e trabucco. Mi piace pensarti con le cuffie alle orecchie mentre ascolti Sunday Morning dei Velvet Underground, mentre le canticchi spensierata e fuori sincro. Mi piace pensarti madre, quando i tuoi figli ti avranno preso come esempio e avrai fatto il lavoro più importante della vita"».
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