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«Generazione più triste di sempre». Non siamo solo questo

Le considerazioni della psicologa e psicoterapeuta Angela Papagni

Oggi, più di moltissimi altri giorni, qualcuno starà cercando di dare un nome a quel senso di vuoto che lascia ogni grande festa. Qualcuno si chiederà perché, tra luci e sontuose decorazioni natalizie, c'è la manchevolezza che bussa alla porta, quella su cui abbiamo appeso la sfarzosa ghirlanda verde e rossa. Se poi fai parte della generazione Z sicuramente hai capito di cosa sto parlando.

Per anni, circa dal 2000 in poi, la tecnologia è stata considerata la principale causa di tutti i mali: malattie, solitudine, depressione, guerre e molto altro ancora. Il discorso viene esasperato quando tecnologia diventa sinonimo di app e a sua volta di social network. «Passiamo più tempo a costruire la nostra community che a coltivare rapporti, milioni di follower e zero amici», tutti discorsi che almeno una volta ci siamo sentiti dipingere addosso, accompagnati da arringhe apocalittiche su come i giovani d'oggi – come se i giovani di ieri non avessero avuto le loro problematiche come per esempio, l'abuso di eroina – siano ormai arrivati alla deriva, il punto di non ritorno in cui non possiamo più essere salvati.

Le spiegazioni semplicistiche in realtà ci sono sempre piaciute, perché riassumono problemi complessi con nessi all'apparenza logici, sensati e diretti, piuttosto che mettere una lente d'ingrandimento su tutte le motivazioni che ci hanno portato ad essere la generazione più triste di sempre (sarebbe troppo complesso farlo senza gli strumenti giusti). Forse considerare analiticamente tutte gli eventi fattuali e le conseguenze sociali su chi è il capitale umano, e sarà il capitale futuro negli anni avvenire, è troppo angosciante.

Generazione più triste di sempre: alleggeriamo il bagaglio!

Allora proviamo al contrario: pensiamo che una pandemia non l'abbiamo mai vissuta. L'ultimo vago ricordo che abbiamo è al secondo anno delle superiori quando il prof di italiano ha spiegato I promessi sposi ed eravamo tutti costretti a immaginare i lazzaretti di cui nessuno sapeva il significato o i medici della peste. Ma effettivamente, la malattia infettiva rimane solo una costruzione della nostra immaginazione e che non potrebbe mai accadere con il progresso e le condizioni igienico-sanitarie controllate. Infondo, tra poco saremo nel 2023, un'epidemia è impensabile, vero?

Immaginiamo poi, che per due anni non abbiamo rinunciato a concerti, festival, raduni, sagre, pranzi e cene con amici e famiglia senza la paura di essere responsabili del contagio di qualcuno. Pensiamo ancora più in grande: non abbiamo rinunciato a treni o aerei che potevano portarci tra le braccia delle persone amate, che non abbiamo perso nessuna persona cara, non li abbiamo neanche messi in pericolo involontariamente. Non abbiamo mai passato diversi mesi potendo percorrere solo il perimetro della propria casa, così disperati da cantare a squarciagola sui balconi per un trend partito dai social. In quel caso, li abbiamo ringraziati per averci avvicinato contro ogni decreto.
Ecco che, immaginando per un attimo che tutto ciò non sia mai accaduto, improvvisamente sentiamo il carico di questi anni alleggerirsi.

Generazione più triste di sempre: tra tecnologia e provincia

Pensiamo che tutto questo sia solo un libro che le nuove generazioni studieranno a scuola. Abbiamo vissuto i nostri anni come faceva la beat generation, siamo stati ascoltati dallo Stato, che dovrebbe occuparsi dai suoi cittadini con aiuti psicologici prolungati, con misure che hanno aumentato l'occupazione giovanile, che non ci siano stati licenziamenti, che non ci sia in atto una guerra che abbia influito su bollette, luce, gas, automobili, benzina, o banalmente nel fare regali quest'anno o nel tenere spenti i termosifoni.

Pensiamo quindi, che il nostro benessere emotivo e sociale non abbia nulla a che fare con le definizioni che le generazioni adulte danno di noi e immaginiamo di sentirci dire: «Usi consapevolmente i social network, grazie a loro riesci persino a trovare un lavoro e a pagare le bollette. Complimenti, ti sei inventato un mestiere e hai solo vent'anni». Oppure: «Sei travolto da FOMO, cyberbullismo, fake news, modelli di bellezza irraggiungibili, hate speech e haters e nessuno istituzionale sociale che fa niente. Affronti tutto ciò senza nessuna misura di contrasto e comunque nessuna che sia efficace».

Sogniamo di vivere in una provincia in cui potersi sentire al sicuro, che non abbia il primo posto in Italia per furti d'auto e che non sia al secondo posto tra le tre provincie peggiori per servizio ai giovani (secondo il report de "Il sole 24 ore") o in cui non ci siano apologie al fascismo e vengano rispettati tutti i generi grammaticali per professione.

Generazione più triste di sempre: l'intervento della psicologa Papagni

Se è vero, come dicono i Maneskin, che «c'hai solo vent'anni», allora perché tutti si aspettavano che fossimo la generazione che avrebbe salvato il mondo dal surriscaldamento globale? Concentrando il tutto su una domanda: «Perché siamo infelici se abbiamo tutto?»

«Interagire con il mondo oggi è più semplice: internet ha di fatto consentito l'accesso ad una innumerevole quantità di esperienze e informazioni. Ma il trucco è presto svelato: poter accedere in maniera immediata a tutte le esperienze possibili rimpiazzandole velocemente per non perdere nulla, non può annullare l'angoscia, il dolore, la tristezza.

La società capitalistica, che ha soppiantato i riti collettivi, lo scambio interpersonale con gli incanti seduttivi del mercato, ha trasformato le persone in consumatori solitari di oggetti che diano immediato piacere e benessere. (Montella F., "Campi Isomorfi tra clinica e formazione")» dice la psicologa e psicoterapeuta in formazione Angela Papagni.
«Le emozioni, però, non sono beni di consumo. Grazie agli studi di Ekman, è noto che la gioia sia una delle emozioni primarie, innate e universali (insieme a tristezza, rabbia, paura, sorpresa, disprezzo e disgusto) ma quando messe in relazione si trasformano in sentimenti.

Secondo Baldascini, i sentimenti sono "ponti relazionali" che arricchiscono di sfumature i legami che ciascun individuo è in grado di creare: la felicità in relazione agli altri, ad esempio, può generare ammirazione, adorazione, idolatria, stima; in relazione a sé stessi può generare orgoglio, autocompiacimento, vanità ecc. (Baldascini L., "Configurazioni spaziali del legame intergenerazionale e ciclo di vita della Famiglia").

Le emozioni dunque, non possono essere "consumate" ma vissute nella relazione con gli altri, nei legami che permettono alla mente di espandersi, alle persone di crescere e arricchirsi. Forse possiamo avere tutto ma abbiamo dimenticato come stare insieme. E non solo insieme agli altri ma anche insieme a sé stessi, perché se non ci si sente felici vale la pensa farsi un dono per Natale: essere benevolenti, gentili con la propria tristezza, accoglierla e abbracciarla, trattarla con calore e intimità, ascoltare cosa ha da dirci di così importante» conclude la psicologa Papagni.

Perché non ci ascoltiamo?

Se è vero che sentire un'emozione è possibile solo stando con l'altro (in cui per altro si intende anche il proprio sé interiore) allora forse questa tristezza generazionale che accusiamo sarà dovuta alle aspettative distruttive di cui è stata caricata la gen Z, sarà per le imposizioni sociali con cui veniamo imbottiti.

Se i sentimenti sono sociali, proviamo a guardare con nuovi occhi le gen Z, consapevoli della differenza biologica e sociale che esiste nel vivere e nel provare. L'unica cosa certa è che nessuno sa il trucco per vivere sereni con le nostre estensioni artificiali, come la tecnologia, o come accettare debiti e inflazioni che sconteremo per lungo periodo.

Tuttavia, siamo sempre più attenti alla salute mentale, al rispetto delle emozioni che proviamo, alla precisione con cui potersi esprimere liberamente e nessuna delle precedenti generazioni è stata educata a questo. Per questo, mentre i giovani chiedono a gran voce di poter essere sostenuti economicamente nel loro percorso di terapia, alcuni adulti gli dicono ancora che «I problemi della vita sono altri».

Ci ritroviamo ad essere un test di noi stessi, non sappiamo cosa ne sarà di noi perché affrontiamo nuove sfide per la prima volta e non ci sono grandi maestri del passato che possono indicarci la via giusta. Tutti ne sanno meno di noi di questa evoluzione che viviamo in prima persona, eppure alcuni ci danno già per spacciati. Prima perché non ci date una mano a convivere con questa tristezza?
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